L’arresto eseguito il 24 settembre scorso a Pristina dell’ex militante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), Salih Mustafa, è stato il primo effettuato su richiesta dell’ufficio del Procuratore parte delle Kosovo Specialist Chambers and Specialist Prosecutor’s Office, la corte speciale istituita nel 2015 con lo scopo di indagare sui presunti crimini perpetrati dall’UCK nel corso della guerra del Kosovo nel 1998-99 e con sede a l’Aja, in Olanda. L’imputato è stato tradotto nella struttura carceraria del tribunale e, ascoltato il 29 settembre in udienza preliminare, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Peraltro, l’avvocato di Mustafa, Julius Von Boné, ha affermato che intende valutare la possibilità di contestare la legalità giurisdizionale del tribunale, secondo una posizione da sempre condivisa dall’associazione che riunisce i veterani dell’UCK.
I provvedimenti
Sorprende che la scelta della corte ricada, per prima, su un personaggio come Salih Mustafa, non certo una figura di primo piano nel panorama di quegli anni: se è vero, infatti, che nell’UCK ha avuto una carica di comando dei gruppi operanti nell’area di Llapi, è anche vero che il suo ruolo politico post-bellico è stato di secondo piano – fu per un breve periodo il responsabile dell’intelligence dell’esercito kosovaro.
I capi d’accusa mossi a Mustafa sono pesanti e si riferiscono a fatti che sarebbero avvenuti nell’aprile del 1999 nel centro di detenzione di Zllash: essi indicano un suo presunto coinvolgimento in crimini di detenzione arbitraria, trattamento crudele, tortura e omicidio.
Non un provvedimento isolato quello che ha riguardato Mustafa, ma il primo passo di quello che, ad oggi, sembra essere l’avvio di un’iniziativa più ampia e coordinata, come peraltro lasciava presagire, il giugno scorso, la clamorosa messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica, Hashim Thaci, e dell’ex presidente del parlamento, Kadri Veseli, accusati di crimini contro l’umanità – senza che, peraltro, su di loro fosse stata per il momento intrapresa alcuna azione coercitiva e su cui si attende la decisione del giudice preliminare per l’avvio o meno del processo.
La fuga di notizie
Un’iniziativa, quella di questi giorni, che a stretto giro ha portato ad altri due arresti eccellenti, quelli di Hysni Gucati e Nasim Haradinaj, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione degli ex-combattenti UCK, accusati di intimidazione di testimoni, ritorsioni e violazione della segretezza dei procedimenti. Fermi che si inquadrano nell’ambito dell’inspiegabile fuoriuscita di documenti riservati della corte ed entrati nella disponibilità dell’associazione da loro rappresentata.
Non una novità peraltro – sarebbero migliaia i fascicoli che a più riprese sarebbero già misteriosamente finiti nelle mani dei veterani nei mesi passati – ma un episodio particolarmente rilevante trattandosi di un fascicolo di ben 260 pagine contenente informazioni sensibili circa l’operato del tribunale: ovvero, le indagini in corso, i nomi dei testimoni e, soprattutto, le persone su cui starebbe investigando.
In questo senso, l’arresto di Mustafa potrebbe essere letto come un’accelerazione della corte resasi necessaria per tamponare la fuga di notizie anche in considerazione del calibro dei nomi trapelati, tutti personaggi che occupano o hanno occupato i vertici politici ed istituzionali del paese.
I rischi e le opportunità
Certo la sensazione che dopo anni di oscuro lavoro la corte stia sparando a zero è forte: di più, l’impressione che se ne potrebbe trarre è che il suo operato sia animato da intenti di riequilibrio della storia sin qui raccontata, assecondando le critiche che accompagnarono la sua nascita. Ed è in questo retropensiero che si annida il rischio vero e, al contempo, la sfida più difficile che dovrà affrontare la società civile kosovara nei prossimi anni.
La descrizione, in Kosovo, dell’operato dell’UCK negli anni della guerra è stata fin qui idealizzata secondo i canoni di una narrazione mitizzata di paladini senza macchia contro l’occupante, unico responsabile delle nefandezze che, sempre, fanno da corollario alle guerre. E, sebbene l’esito delle elezioni di un anno fa e la breve esperienza del governo di Albin Kurti che ne seguì, provino come questo quadretto idilliaco stia cominciando a mostrare la corda, ancora oggi gli ex-combattenti sono considerati da amplissime fette della popolazione come degli eroi. Accettare la possibilità di uscire da questo mondo in bianco e nero significa anche riconoscere la legittimità del lavoro della corte – votata peraltro dal parlamento kosovaro e quindi parte integrante del sistema del paese – facendo sì che si attuino le condizioni perchè essa operi in Kosovo e non in Olanda dove è stato collocato per ragioni di sicurezza. E ancora, a distanza di vent’anni è arrivato il momento d’accettare che alcuni di quegli eroi siano messi sotto accusa, allontanati dalla vita politica e condannati qualora ritenuti responsabili, ricordando che le basi del diritto prevedono che le responsabilità penali, qualunque esse siano, sono personali per quanto inquadrate in contesto drammatico come quello di un conflitto.
È questa l’unica maniera con la quale, come annotato da Shkelzen Gashi sulle colonne del Prishtina Insight, sarà possibile “difendere la guerra di liberazione”. Non sarà facile e non lo sarà perché le ferite della guerra sono ancora aperte. Ma anche perché tale accettazione prevede anche lo sforzo di resistere alle provocazioni e alle strumentalizzazioni. Quelle che, con ogni probabilità, arriveranno dalla Serbia – che al contrario a casa propria non ha mai fatto i conti con quei fatti – nel tentativo di inquinare i pozzi della storia, di gettare discredito sulla legittimità della guerra e sulle sue conquiste, dando la stura ad una contro-narrazione che inverta i ruoli di vittime e carnefici o, quantomeno, avvalori la teoria del “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Qualcosa già si comincia a intravedere stando alle dichiarazioni di pochi giorni fa di Milovan Drecun, presidente della commissione del parlamento serbo sul Kosovo, che ha ammesso di aver collaborato con la corte, dicendosi inoltre certo che Thaci verrà arrestato. Una posizione peraltro condivisa dal ministro degli Esteri serbo, Ivica Dacic, che a tale dichiarazione ha aggiunto una velata minaccia ai serbi che aiutano a trovare le fosse comuni in cui sono stati sepolti i morti albanesi.
È solo l’inizio, c’è da esserne certi, sono solo le prime schermaglie. Ma in Kosovo la gente e, soprattutto, la classe politica dovrebbe avere la consapevolezza che, per quanto complicato e doloroso, il pallino è nelle loro mani.
Foto Radio Free Europe