Arrivarono in Italia a migliaia e furono internati nei campi di concentramento e nelle carceri del nostro paese, sparse in tutto il territorio: Perugia, Cairo Montenotte, Capodistria. E ancora, Sulmona, Renicci (Forlì), Fertilia, in provincia di Alghero. Giungevano dalla Slovenia, dalla Dalmazia, dalla Provincia del Carnaro (capoluogo Fiume), persino dal Montenegro (oltre che da Grecia e Albania).
Chi erano?
Erano i prigionieri jugoslavi arrestati dai Carabinieri e dalle forze dell’esercito italiano durante l’occupazione fascista in Jugoslavia in piena Seconda guerra mondiale. Il loro numero non è noto con esattezza ma quello che si sa è che si trattava di un mondo variegato sia per estrazione – c’erano avvocati, meccanici, agricoltori – sia per età: alcuni erano giovanissimi, persino studenti delle scuole medie. Nel solo anno scolastico 1942-1943 furono cinquanta gli studenti tra i 15 e i 19 anni arrestati, due dei quali condannati a morte, quattro uccisi per rappresaglia.
Tutti accomunati dalla loro attività antifascista, anch’essa la più disparata: dalla partecipazione attiva alla lotta partigiana fino al semplice favoreggiamento o alla presunta propaganda “eversiva” antifascista – a volte bastava aver danneggiato emblemi fascisti o disegnato dei simboli antifascisti sulle mura cittadine per vedersi comminare delle pene pesantissime. Tutti, questi prigionieri jugoslavi, prevalentemente uomini anche se – secondo le testimonianze disponibili – nel carcere di Perugia furono rinchiuse circa quattrocento detenute jugoslave, tra le quali almeno 15 minorenni.
Di campo in campo, la doppia deportazione
La ricostruzione del destino di queste persone è oggetto di uno studio, finanziato da una istituzione tedesca, condotto da un gruppo di ricercatori (Thomas Porena, Marco Abram, Francesca Rolandi e Andrea Giuseppini), i cui risultati preliminari sono stati condivisi online e rilanciati, nei giorni scorsi, sulla pagina Facebook dell’organizzazione no-profit campifascisti.it.
La ricerca, portata avanti consultando gli archivi italiani, tedeschi, sloveni, croati e serbi si propone, in particolare, di analizzare le sorti di questi prigionieri a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i campi di prigionia nazionali passarono dalla gestione italiana a quella delle forze occupanti naziste. Un passaggio peraltro preceduto da una sorta di intervallo – quello intercorso tra l’arresto di Mussolini del 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno – in cui regnò sovrana la confusione permettendo la fuga di alcuni dei prigionieri, per una libertà che fu, il più delle volte, solo temporanea.
Una situazione che comunque determinò quella che viene definita la “doppia deportazione”, ovvero il trasferimento di gran parte dei detenuti jugoslavi – e non solo – dai campi italiani a quelli tedeschi, prevalentemente in Germania: tra il settembre e il dicembre del 1943, Neuengamme (Amburgo), Dachau, Buchenwald, Mauthausen e Gusen furono le destinazioni finali di molti di loro; destinazioni alle quali i prigionieri giunsero dopo viaggi estenuanti di giorni, nelle peggiori condizioni e sottoposti a vessazioni d’ogni genere, secondo un racconto che è fin troppo noto. Altri prigionieri furono invece smistati nei campi di lavoro associati alle fabbriche, soprattutto nella regione della Ruhr, come accadde a coloro che provenivano dal carcere di Parma o, ancora, nelle strutture di servizio alle acciaierie della Krupp, dedite alla costruzione di carri armati e munizioni (lo Zivilarbeiterlager di Essen-Borbeck).
Il dovere di ricordare nomi e cognomi
La ricostruzione proposta dallo studio, per quanto ancora in divenire, offre comunque uno spaccato di quei mesi, racconta dello zelo dei funzionari fascisti italiani che negarono la libertà anche quando fu chiaro che il fascismo era morto e sepolto; e ancora, dell’organizzazione maniacale dei nazisti nello smistamento dei prigionieri – diversa destinazione per diversa provenienza – ma anche delle condizioni inumane che si vivevano nei campi italiani, una cosa che si tende troppo spesso ad omettere, con fare tipicamente autoassolutorio (maltrattamenti, pestaggi, abusi sessuali, mancanza di cibo).
Un doveroso e minuzioso sforzo di ricostruzione quello portato avanti da questa ricerca. Si fanno nomi e cognomi, si ricordano date e si propongono elenchi: e noi che oggi leggiamo quei nomi e quei cognomi, dovremmo avere l’accortezza di farlo col rispetto dovuto, senza storpiature, per quanto difficile possa essere per chi non sa di quelle lingue. E dovremmo, anche, sentire il dovere di far di conto, di calcolare l’età delle persone di cui si parla e sapere che, in moltissimi casi, si racconta la storia di ragazzi o poco più. Ricordare che Josip Delonga tornò a casa come uno scheletro e che Ivan Grubišić a casa non tornò più, morto a 23 anni. Che Nikola Perić fu deportato in catene con una condanna a 9 anni per aver parlato male dell’occupante fascista, da ubriaco una sera in osteria; e che Ante Bačić, uno studente della IV classe della Scuola media tecnica di Spalato, fu arrestato dalla polizia italiana nell’aprile 1942 e condannato per “attività sovversiva nelle scuole” perché, secondo quanto riportato dal preside, si era rifiutato di fare il saluto fascista: dieci anni per lui, prima il carcere a Parma, infine la deportazione in Germania.
Lo studio, per chi lo compie e per chi lo legge, è un modo per onorare quella memoria, la loro. Ed è un atto dovuto a loro e a noi stessi.
Foto Vlasta Beltram, Le carceri capodistriane