Contrariamente allo scorso luglio, gli scontri iniziati domenica in Nagorno-Karabakh non si stanno concludendo rapidamente. La prospettiva di una escalation peggiore di quella avvenuta nel 2016, paventata ieri da alcuni esperti, si sta puntualmente realizzando e i combattimenti sono proseguiti durante la giornata di oggi.
Baku e Erevan hanno dichiarato la legge marziale e richiamato i riservisti, rinunciando, per ora, a qualsiasi velleità di dialogo. Senza un deciso intervento internazionale, i due paesi si contenderanno con le armi il controllo del Nagorno-Karabakh, territorio de iure parte dell’Azerbaigian, ma de facto indipendente grazie al supporto armeno.
La situazione sul campo
La nebbia della guerra è salita fitta sulla regione e la situazione sul campo non è chiarissima. Secondo quanto dichiarato questa mattina dal ministero della Difesa di Baku, le truppe azere avrebbero conquistato alcune colline in posizione strategica intorno al villaggio di Talish, zona fulcro dei combattimenti nel 2016. Tale affermazione è stata parzialmente confermata da parte armena, con il presidente del Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan che ha ammesso la perdita di alcuni territori nell’area di Talish ieri sera. Questa mattina, però, il consiglio di Sicurezza del Nagorno-Karabakh ha dichiarato che le posizioni conquistate dagli azeri, sarebbero state riprese.
La morte e il ferimento di centinaia di persone – tra soldati e civili – sono la conseguenza più certa di questi due giorni di conflitto. Il ministero della Difesa armeno ha pubblicato una lista con le date di nascita di sedici caduti che includeva dieci ragazzi nati dopo il duemila. Come tutte le guerre, anche questa è combattuta dai giovanissimi che in entrambi i paesi sono costretti a svolgere due anni di servizio militare al compimento della maggiore età.
Le reazioni internazionali
La gravità dell’escalation ha riportato sull’agenda della comunità internazionale un conflitto spesso dimenticato. Ieri, erano arrivati gli inviti a riprendere il dialogo da parte del Gruppo di Minsk dell’OSCE – l’ente internazionale preposto a risolvere il conflitto – e di ONU, Russia, Iran, Francia e Unione Europea. Oggi, dopo un lungo silenzio, si è espresso anche il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, condannando gli scontri in corso nella regione e invitando il Gruppo di Minsk a riprendere i negoziati.
Al contempo, il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato il suo supporto all’Azerbaigian, invitato l’Armenia a ritirarsi dai “territori azeri occupati” e criticato duramente l’OSCE per non essere riuscita a prevenire il conflitto.
Le tempistiche del conflitto
Come era già chiaro a luglio, una nuova escalation in Nagorno-Karabakh era solo questione di tempo. L’analista Thomas de Waal ha sottolineato che è l’Azerbaigian ad avere interesse ad alterare lo status quo che si è venuto a creare con il cessate del fuoco del 1994 e che vede parte del territorio azero sotto il controllo armeno.
L’intensità dell’offensiva del 27 settembre lascia pensare ad un attacco preparato da tempo e diverse sono le ragioni per cui è arrivata proprio adesso. Secondo il ricercatore Giorgio Comai, intervenuto al programma Radio 3 Mondo, il crollo del prezzo di gas e petrolio spiega le tempistiche di questa escalation. La vendita di materie prime serviva a Baku per finanziare il proprio riarmo e l’Azerbagian ha, quindi, avuto per anni interesse a mantenere la situazione stabile. Una volta che queste entrate sono venute meno, riconquistare i territori perduti è diventata la nuova priorità.
Altre concause, potrebbero essere la debolezza della presidenza degli Stati Uniti, alle prese con le elezioni, e la crisi dell’OSCE, per altro innescata proprio dall’Azerbaigian. Non a caso, l’escalation è avvenuta in concomitanza con la prima visita nella regione dall’inizio della pandemia di Rudolf Michalka, rappresentante speciale dell’OSCE per il Caucaso del Sud.
Come nelle occasioni precedenti, Armenia e Azerbaigian si sono accusati a vicenda di aver iniziato gli scontri e di usare i civili come scudi umani. I cittadini dei due paesi hanno iniziato, altra abitudine consolidata, a pubblicare appelli sui social media con la solita retorica alternativamente aggressiva e vittimistica. Poche ore di scontri sono bastate a fare in modo che anche esponenti della società civile, solitamente in opposizione al governo del proprio paese, si unissero alla retorica nazionalista. Intanto, una delle poche voci dissidenti, l’attivista azero Giyas Ibrahimov sarebbe finito agli arresti (e poi rilasciato) per aver pubblicato dei post contro la guerra su Facebook, un presagio negativo per le prospettive di pace nella regione.
Immagine: CaspianNews