indipendenza bielorussa

La fine dell’indipendenza bielorussa?

La crisi in corso in Bielorussia, scoppiata all’indomani delle contestate elezioni presidenziali che hanno portato alla riconferma di Alexander Lukashenko, al potere dal 1994, segna ormai il passo e sembra improbabile una vittoria delle forze dell’opposizione né le proteste popolari, pacifiche ma brutalmente represse, potranno rovesciare l’autocrate al potere. Anche perché l’autocrate ha finalmente deciso di chiedere aiuto all’ingombrante e invadente vicino russo. Un “aiuto” che costerà caro e salato, e che infatti Lukashenko ha cercato di evitare fino all’ultimo. Il prezzo è la definitiva perdita della sovranità bielorussa, dissolta dentro un’Unione tra Mosca e Minsk che vedrà quest’ultima come socio di minoranza.

Esercitazioni militari congiunte

La visita a Minsk del premier russo Michail Mišustin, avvenuta a inizio settembre, aveva posto le basi per un meeting tra i due presidenti. L’incontro di Sochi, che ha avuto luogo il 14 settembre scorso tra Putin e Lukashenko, è servito a indicare la via. Una via segnata e decisa a Mosca e che Putin si è limitato a spiegare all’omologo bielorusso. Il giorno dopo l’incontro, truppe russe aviotrasportate sono entrate in Bielorussia. Esercitazioni militari congiunte sono poi state effettuate sul territorio bielorusso, sia al confine polacco sia in prossimità di quello lituano. Scopo ufficiale delle esercitazioni è la lotta al terrorismo, ma è chiara l’intenzione russa di mettere pressione a quei paesi europei che stanno offrendo supporto all’opposizione e alle proteste. In base agli accordi, esercitazioni militari di questo tipo si svolgeranno ogni mese.

Personale russo si è inoltre insediato nei media di stato bielorussi, sostituendo i dipendenti in sciopero e avviando una rinnovata propaganda anti-occidentale. Le proteste e l’opposizione vengono ora più decisamente descritte come un’ingerenza della Nato nel paese.

Un ingente prestito, pari a un miliardo e mezzo di dollari, è stato infine concesso a Minsk. E prestito fa rima con debito. Un debito che stringe ancora di più il laccio che lega i due paesi.

L’Unione russo-bielorussa

Si tratta dei primi passi verso quell‘integrazione tra Russia e Bielorussia che Lukashenko ha fin qui cercato di rinviare con ogni mezzo. Un’integrazione che passa sotto il nome di Unione russo-bielorussa e che è in cantiere dal 1996, quando al Cremlino c’era Boris Yeltsin. Le basi dell’Unione stanno in un Trattato firmato nel 1997 e in successive integrazioni che disegnano la formazione di un nuovo stato federale dotato di moneta, esercito, costituzione, legislazione e presidente in comune.

Ai tempi della sigla del Trattato, Lukashenko era un giovane rampante leader post-sovietico convinto di poter fare un sol boccone del vecchio avvinazzato Yeltsin. Il 26 gennaio del 2000 il parlamento bielorusso ratificò l’Unione. Ma Lukashenko aveva fatto male i suoi conti perché il 26 marzo dello stesso anno, al Cremlino ci arrivò Vladimir Putin.

Da quel momento in poi Lukashenko, consapevole della propria posizione di debolezza rispetto al più potente vicino, ha tergiversato, rinviando la realizzazione dell’Unione. Ancora il 6 agosto scorso, Lukashenko dichiarava “impossibile” l’integrazione tra Russia e Bielorussia. Messo con le spalle al muro dalle proteste, ha però deciso di rinunciare alla sovranità del paese per conservarsi al potere.

Il tradimento di Lukashenko

Lukashenko ha così consumato l’ultimo tradimento verso il proprio paese, avviando la Bielorussia ad essere un vassallo di Mosca e privando il suo popolo della libertà di determinare la propria storia. Nessuno, in Europa o negli Stati Uniti, potrà farci niente. Anzi, sarà necessario correre ai ripari. La Bielorussia rappresenta un ideale ‘cuscinetto‘ tra la Russia e i paesi Nato. L’eventuale presenza militare russa ai confini di Polonia e Lituania rappresenterà certo una sfida (qualcuno direbbe una minaccia) per tutto l’occidente. Trovare un modus vivendi con il vicino russo sarà inevitabile quanto necessario. Se l’ordine di Yalta è finito dopo il 1989, bisognerà con realismo trovarne uno nuovo. Anche se non ci piacerà.

 

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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