Il Kazakhstan ha ufficialmente abolito la pena di morte dal proprio codice. È stato Kairat Umarov, rappresentante del paese presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a mettere la firma il 24 settembre scorso sul Secondo protocollo aggiuntivo al Patto internazionale sui diritti civili e politici.
La firma di Umarov al protocollo internazionale era stata peraltro annunciata dal neopresidente kazako, Kassym Jomart Tokayev, durante il suo discorso al Dibattito Generale della 75a sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU. È stato lo stesso Tokayev a sottolineare in quell’occasione che la decisione era maturata con l’obiettivo di realizzare il diritto fondamentale alla vita e alla dignità umana. Diritto che, tra l’altro, trova formalmente spazio anche nella Costituzione del paese, all’articolo 15 per la precisione, dove viene sancito che “tutti hanno diritto alla vita”.
Il percorso e il contesto
Si completa, così, un lungo e graduale percorso, virtualmente iniziato nel gennaio del 1998 con l’introduzione del nuovo Codice penale che prevedeva la riduzione, da diciotto a tre, dei crimini per i quali la pena poteva essere comminata – omicidio premeditato, genocidio e sabotaggio – mantenendola per altri reati di natura militare, come il tradimento in tempo di guerra.
Nel 2002 era stata introdotta una nuova stretta estendendo l’abrogazione ai minori, le donne e gli uomini oltre i 65 anni. Ma la svolta vera e propria per l’abolizione della pena di morte si può far risalire al dicembre del 2003 quando l’allora Presidente della Repubblica, Nursultan Nazarbayev, aveva firmato la moratoria alle esecuzioni prevedendo la detenzione all’ergastolo come pena alternativa.
Secondo i dati raccolti dall’Organizzazione Non Governativa (ONG) “Nessuno Tocchi Caino”, nel paese le pene eseguite nel periodo tra il 1990 e il 2003 sarebbero state in tutto 536. È Amnesty International a evidenziare che, solo nel 2003 erano state 19, prima dell’entrata in vigore del provvedimento presidenziale; comunque, in calo rispetto ai due anni precedenti quando le esecuzioni erano state 32 e 33, rispettivamente, mediamente una ogni quindici giorni. Tutte tramite plotone. È sempre Amnesty International a precisare come le ultime esecuzioni risalgano al novembre 2003 quando furono ben cinque in un solo mese.
Fin dalla stipula della moratoria, Nazarbayev aveva fatto intendere che quello andava considerato solo come un primo passo esprimendo, più volte e pubblicamente, il proprio intento a completare l’iter necessario. Con un emendamento alla Costituzione del 2007 i reati passibili della morte erano stati ulteriormente ridotti e di fatto relegati ai reati di guerra e agli attentati terroristici. Peraltro anche gli atti ufficiali condotti in sede internazionale indicavano, inequivocabilmente, che questo sarebbe stato il naturale decorso del cammino intrapreso: nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 2018, infatti, il Kazakhstan aveva espresso voto favorevole alla risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali.
Le reazioni e la situazione nei paesi dell’area
Soddisfazione per la decisione del Kazakhstan è stata espressa anche dal Consiglio d’Europa. È stato Daniel Holtgen, Direttore della Comunicazione e Portavoce del Segretario generale, ad affidare a Twitter una propria dichiarazione di compiacimento sottolineando che “questa decisione espande la famiglia delle nazioni senza pena capitale che credono che la morte non equivalga alla giustizia”.
Di pari segno, ovviamente, la reazione espressa da Amnesty International tramite Marie Struthers, Direttore di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale, che ha anche tenuto a ribadire come “l’abolizione di questo tipo di punizione a livello globale rimanga una priorità per Amnesty International”.
Sebbene, infatti, con la propria decisione il Kazakhstan sia diventato il 107° paese al mondo ad aver abolito la pena di morte, molto resta ancora da fare, anche in Europa e nei paesi dell’Asia centrale: Russia, Tagikistan e Bielorussia sono ora gli unici paesi in Europa e Asia centrale che non hanno ancora firmato o ratificato il Secondo Protocollo opzionale, mentre la Bielorussia è l’unico paese della regione che ancora ammette condanne capitali.
(Foto Babilon Magazine)