Me’med, la bandana rossa e il fiocco di neve
di Semezdin Mehmedinović
traduzione di Elvira Mujčić
Bottega Errante Edizioni, 2020
pp. 216
Euro 17
Mi ha sempre inquietato l’idea di morire in un paesaggio di alberi ottombrini. C’è qualcosa di poco convincente in questo, qualcosa di banale. In qualche modo è indecente morire in autunno. È kitsch morire in autunno, quando muore tutto il resto. Insieme alle foglie.
Questo uno dei primi pensieri del cinquantenne Semezdin Mehmedinović – per i dottori americani semplicisticamente Me’med – quando in una mattina come tante altre viene colpito da un infarto. È l’inizio di una lunga sbobinatura di pensieri, un rullino, un flusso di coscienza centellinato in brevi paragrafi indipendenti, attraverso cui pagina dopo pagina l’autore si svela al lettore. Altamente autobiografico, Mehmedinović firma un romanzo toccante e profondo, intesse malinconia e ironia, compone un lessico famigliare americano-bosniaco.
Scrittore, poeta, giornalista e sceneggiatore nato nei pressi di Tuzla nel 1960, studia a Sarajevo e lì rimane con la famiglia per tutta la durata dell’assedio, senza mai smettere di scrivere. Nel gennaio 1996 si trasferisce con la moglie Sanja e il figlio Harun negli Stati Uniti, prima in Arizona e poi in Virginia.
La farfalla monarca migra dal Messico in Canada e torna indietro, ma questa migrazione dura quattro generazioni. La prima generazione dal Messico si sposta in Texas, la terza nasce in Canada. La farfalla nipote e il nonno farfalla vivono le loro brevi vite in nazioni diverse. Esattamente come noi, che nasciamo nei Balcani.
Novembre 2010. Un’ambulanza trasporta d’urgenza Me’med in ospedale: il suo cuore ha bisogno di essere rammendato al più presto. E mentre i medici si occupano del suo corpo, impigliandolo al letto d’ospedale tra aghi e fili, il protagonista comincia a dipanare la matassa dei suoi pensieri.
Aprile 2015. Un aereo conduce Mehmedinović dalla Virginia all’Arizona. In aeroporto l’aspetta Harun, in testa la bandana scarlatta, retaggio dell’ultima generazione dei pionieri di Tito. Padre e figlio intraprendono un viaggio in compagnia dei loro “eccessi di malinconia” tra le rosse sabbie dei deserti arizonesi; Harun è a caccia dello scatto perfetto, Semezdin compone un diario per il figlio. L’inchiostro tratteggia parole e disegni intimisti ed espressivi, a colori.
Aprile 2016. Una macchina segue un’ambulanza diretta in ospedale. Nella prima c’è il narratore, nella seconda sua moglie. La giovane che nella Sarajevo del 1993 si era messa tra il suo ragazzo e il kalašnikov puntato contro di lui diventa di colpo piccola e fragile come un fiocco di neve. Un altro viaggio che incomincia, stavolta nel passato, a ritroso, alla ricerca della parte di ricordi che Sanja ha perduto.
Aprile 1992. L’inizio dell’assedio di Sarajevo. L’anno da cui Me’med non è mai uscito.
“Aprile…” e inizia a piangere. “Aprile è il mese più crudele, genera lillà dalla terra morta… T.S. Eliot! Mi sono ricordata!”
Vincitore del premio Meša Selimović in Bosnia e Mirko Kovać in Croazia come miglior romanzo, l’opera di Semezdin Mehmedinović è profondamente intrisa di storia, riferimenti culturali, nostalgia, ma soprattutto amore. L’amore è il filo conduttore della narrazione, nelle sue diverse accezioni e sfumature, l’amore è il filo che fatto inchiostro rammenda il cuore di Me’med, lo lega a suo figlio Harun, stringe alla sua Bosnia, rattoppa i buchi nella memoria di Sanja.
“Chi è quest’uomo?”
Per un attimo lei cerca di fermare lo sguardo, mi sembra che guardi attraverso di me e mi sento gelare il corpo. Penso: mi ha dimenticato. Poi d’un tratto il suo viso si trasforma, mi guarda come se mi avesse salvato dall’inesistenza, o come se mi avesse appena partorito, e con l’espressione dell’amore più puro, dice:
“Il mio Semezdin”.
È questo il momento in cui il mio nome si è riempito di significato. Io sono il suo Semezdin. E questa è la mia storia d’amore, e la mia vita.
foto: zurnal.info