Per l’occasione l’americano Bobby Fischer si era fatto cucire un abito su misura nella migliore sartoria di Belgrado e tagliato barba e capelli. Entrò nella sala dove era stata preparata la scacchiera secondo i suoi maniacali dettami, si sedette al suo posto, premette il bottone dell’orologio da lui stesso progettato e iniziò a giocare.
Era il 2 settembre del 1992: esattamente vent’anni prima lo stesso Fischer era diventato campione del mondo di scacchi vincendo un match epico contro il russo Boris Spasskij, in quella che al mondo intero era sembrata più un’incruenta appendice della guerra fredda che un incontro sportivo vero e proprio. Una battaglia giocata sulle sessantaquattro case bianche e nere, non meno importante di molte altre, anzi importantissima visto l’enorme impatto mediatico internazionale che aveva avuto. Una specie di scontro di civiltà, si direbbe oggi, assecondando l’imperante necessità di semplificare. Per quella vittoria Fischer diventò un eroe in patria, acclamato persino dal presidente statunitense Richard Nixon, perché, si sa, tutto fa brodo, specie in quel contesto. Durò poco.
Anche ora di fronte a lui c’era Boris Spasskij, il gioco era lo stesso, così come l’arbitro, il tedesco Lothar Schmid. A cambiare era il luogo: non più Reykjavík, la capitale islandese, ma Budva, ex-Jugoslavia, Montenegro per la precisione. Non un dettaglio: è in questa differenza, infatti, che sta la ragione per la quale questa storia merita di essere ricordata, non certo per il significato meramente sportivo. Anzi. Sia Fischer che Spasskij, nel 1992, potevano infatti essere considerati degli ex-giocatori: sebbene si tentò di spacciare quell’evento come campionato del mondo, Fischer non giocava una partita ufficiale da vent’anni e, di fatto, aveva fatto perdere le proprie tracce, chiuso in una sorta di rancoroso auto-isolamento; Spasskij nella classifica internazionale era sprofondato al centesimo posto, o giù di lì. Due pensionati, insomma.
Budva, nel settembre del 1992 non era un posto come gli altri, così come tutto il Montenegro. Erano tutti i Balcani, per la precisione, a non essere un posto come gli altri, in quei giorni, in quei mesi, in quegli anni. Il processo di disgregazione della Jugoslavia era nel pieno del suo corso, i primi pezzi, Slovenia e Croazia, avevano già preso la strada dell’indipendenza, non senza che la cosa fosse stata pagata a caro prezzo. Il teatro del contendere si era ora spostato soprattutto in Bosnia Erzegovina e, lì, vi sarebbe rimasto ancora per un bel pezzo: Sarajevo era una città assediata da mesi, la valle del Fiume Drina, al confine con la Serbia, aveva già conosciuto lo scempio della pulizia etnica, a colpi di mortaio e di stupri sistematici, con Srebrenica trasformata in una trappola e il count-down verso l’abisso già avviato.
Anche Bobby Fischer non era un uomo come gli altri. Bobby l’ossessivo, il cospirazionista, il misogino, l’antisemita, il genio assoluto degli scacchi – per molti il più grande di tutti – non era sicuramente un uomo comune. Fisher non ha un soldo in quel momento, vive degli assegni della madre in un monolocale di sedici metri quadri. Ma sarebbe sbagliato indicare quella come la vera causa del suo rientro. Non era il montepremi, no, era il richiamo irresistibile alla scacchiera ma, soprattutto, il desiderio istintivamente masochistico di mettersi ancora una volta tutti contro. Giocare quel match, infatti, significava mettersi il mondo addosso.
Quel mondo che, nel tentativo velleitario di isolare il presidente serbo, Slobodan Milošević, aveva messo in atto un embargo assoluto nei confronti di Serbia e Montenegro. Per i cittadini americani quelle proibizioni erano riassunte nell’ordine esecutivo emesso dall’Ufficio per il controllo degli Affari esteri del Dipartimento del Tesoro americano numero 12810 del giugno del 1992: quell’ordine proibiva la stipula di qualsivoglia forma di contratto a “sostegno di un progetto commerciale in Jugoslavia” e, secondo la lettera fatta pervenire a Fischer stesso nell’immediatezza dell’incontro e firmata dal direttore dell’Ufficio, Richard Newcomb, la competizione si configurava come tale in quanto “lo sponsor jugoslavo beneficia dell’utilizzo del suo nome e reputazione”.
Non è un caso che lo sponsor fosse il presidente della banca Jugoskandic Bank, Jezdimir Vasiljević – tra le persone più potenti di Serbia coinvolto poi in speculazioni finanziarie e sospettato di traffico illegale di armi – che sul piatto mise ben cinque milioni di dollari, oltre a soddisfare le richieste più stravaganti dell’americano, inclusa quella di sollevare la seduta del water nel bagno della sua stanza di tre centimetri. Una disponibilità, quella di Vasiljević, tutta tesa a mettere in cattiva luce il mondo occidentale come quando dichiarò che gli Stati Uniti stavano “contribuendo a soffocare un evento di grande rilievo culturale”.
Su di Vasiljević si appoggiava la longa mano dell’amico Milošević, che condivideva ovviamente l’interesse affinché quella partita si giocasse, si giocasse proprio lì e proprio in quel momento. Al punto che quando i due contendenti si spostarono da Budva a Belgrado per proseguire il confronto, Milošević si fece fotografare pubblicamente con Fischer e Spasskij, affermando che “il match è importante perché si gioca mentre la Jugoslavia si trova sotto un embargo ingiustificato”.
Alla conferenza stampa della vigilia alla presenza di centinaia di giornalisti e in diretta TV, Bobby Fischer estrasse lentamente dalla tasca la lettera con cui il governo americano lo intimava a desistere, pena una sanzione di 250 mila dollari e dieci anni di reclusione: la sventolò di fronte a sé con gesto di sfida e ci sputò sopra platealmente. Nel dicembre dello stesso anno una corte federale di Washington D.C. emise un mandato di cattura con un ordine giudiziario firmato dal presidente americano George W. Bush in persona.
Da quel momento comincia per Fischer un’altra storia, fatta di lunghissime sparizioni, di comparsate estemporanee in cui non mancò di esprimere tutto il proprio viscerale antiamericanismo e di spostamenti che lo portarono in Ungheria, nelle Filippine e in Giappone – dove fu anche arrestato – senza far mai più ritorno in patria. Finì i suoi giorni in Islanda, paese che in una sorta di rinnovata riconoscenza per averlo portato al centro del mondo per una manciata di settimane, fu l’unico disposto a concedergli un passaporto, dopo che gli Stati Uniti gli avevano ritirato la cittadinanza: era il gennaio del 2008.
I testimoni raccontano che, di tanto in tanto, mentre i due contendenti giocavano si sentisse da lontano il rimbombo dell’artiglieria. Per la cronaca, infatti, lo sfida continuò e Fischer vinse piuttosto facilmente a dimostrazione che la classe cristallina era rimasta inalterata. Non giocò mai più, perlomeno pubblicamente, sebbene leggenda voglia che si fosse cimentato più volte online sbaragliando ogni volta i giocatori più forti del mondo.
Nei mesi del carcere in Giappone, Spasskij scrisse una lettera aperta a Bush, nel tentativo di alleviare la posizione del giocatore americano, autodenunciandosi per avere “commesso lo stesso crimine” e chiedendo di “essere chiuso in cella con Fischer e una scacchiera”. Per paradosso l’avversario di una vita, il “nemico” sportivo di sempre, Boris Spasskij, si era trasformato quasi per incanto in un sodale, uno dei pochissimi, un affetto quasi paterno, quel padre che Fischer non conobbe mai.
(Per approfondire si consiglia la lettura di “Finale di partita”, Frank Brady, Il Saggiatore)
Foto: Chessbase