Durante l’estate si sono riaccese le proteste dei cittadini contro la costruzione di una miniera d’oro nei pressi di Amulsar, montagna nel sud dell’Armenia. Nei due anni successivi alla ‘rivoluzione di velluto’ le controversie intorno al progetto di estrazione mineraria, che aveva ricevuto il via libera dall’ex governo guidato dal Partito Repubblicano, sono cresciute in maniera esponenziale.
Da un lato, la miniera è osteggiata dalla popolazione locale e dagli attivisti per le ricadute sulla salute e sull’ambiente connesse: in particolare, si teme l’impatto sulle risorse idriche della vicina cittadina termale di Jermuk. Le strade che portano alla miniera di Amulsar sono bloccate da giugno 2018, quando residenti locali e attivisti si sono mobilitati per arrestare il cantiere – che è attualmente completo al 75% e non ancora in attività. I rischi relativi al progetto sono stati successivamente corroborati da una perizia indipendente, commissionata dal governo post-rivoluzionario e pubblicata la scorsa estate.
Dall’altro lato, quello di Amulsar è un investimento da 400 milioni di dollari in cui sono coinvolti importanti finanziamenti internazionali, tra cui quelli dei governi statunitense e britannico e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Secondo quanto rivelato a maggio dalla testata openDemocracy, l’Armenia avrebbe ricevuto pressioni da parte dei governi statunitense e britannico riguardo la miniera. Nel settembre 2019, il premier Nikol Pashinyan aveva dato il via libera alla prosecuzione degli scavi, chiedendo ai manifestanti di sgomberare le strade.
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Lydian Armenia (sussidiaria di una società anglo-canadese registrata offshore, Lydian International) aveva ricevuto il permesso definitivo di procedere alla costruzione di una miniera d’oro ad Amulsar nel 2016. Ma a causa del blocco del cantiere e della politicizzazione del progetto, nel corso dell’ultimo anno Lydian ha navigato in cattive acque. Inoltre, una petizione online per richiedere ai finanziatori internazionali di Lydian di disinvestire dal progetto ha raccolto oltre 28.000 firme. Nei primi mesi del 2020, in seguito ad una procedura di ristrutturazione soggetta alla legislazione canadese, Lydian è stata acquisita da nuovi proprietari.
L’escalation di agosto
Dopo il cambio di proprietà, Lydian è tornata all’attacco nel tentativo di rilanciare gli scavi ad Amulsar. Nella notte del 3 agosto scorso le gru di Lydian hanno rimosso le cabine precedentemente costruite dai manifestanti per bloccare e sorvegliare due dei tre ingressi alla miniera. La società ha dichiarato che le cabine fossero state costruite illegalmente dai manifestanti sul territorio che appartiene alla società. Secondo gli attivisti dell’Armenian Environmental Front, i posti di blocco erano invece stati eretti in un’area pubblica facente parte della strada interurbana, che per legge non può essere privatizzata.
Oltre un centinaio di residenti locali e attivisti ambientalisti si sono recati all’ingresso della miniera il 4 agosto per protestare contro la rimozione dei posti di blocco. La protesta è sfociata in scontri tra i manifestanti e il personale di sicurezza di Lydian: 10 manifestanti e due membri del personale di sicurezza sono stati arrestati dalle forze di polizia presenti sul posto.
Le proteste sono poi continuate in maniera pacifica nei giorni e nelle settimane successive. Anche a Erevan si sono svolte manifestazioni contro la miniera, che sono però state interrotte dalle autorità per ragioni di salute pubblica legate alla pandemia da covid-19. Lydian ha minacciato i manifestanti di ricorrere a vie legali per difendere il proprio diritto al proseguimento dei lavori.
Il governo armeno sembra aver chiuso gli occhi sulla recente escalation intorno ad Amulsar, forse temendo che Lydian possa decidere di fare causa all’Armenia per i profitti perduti attraverso un meccanismo di arbitrato internazionale chiamato Investor-State Dispute Settlement. L’eventuale decisione potrebbe costare al paese quasi due miliardi di dollari.
La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo disinveste
Nel frattempo però, la battaglia dei cittadini armeni contro la miniera sembra aver dato i propri frutti. Dopo due tentativi falliti, a maggio di quest’anno i residenti di Jermuk, appoggiati da 5 organizzazioni non-governative, hanno inoltrato un terzo reclamo ufficiale presso il Meccanismo Indipendente di Valutazione dei Progetti della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
Nel reclamo, che è stato accettato ed è attualmente sottoposto ad esame, si sostiene che Lydian non sia riuscita “ad assicurare che il progetto ottemperi alle norme ambientali e sociali” stabilite dalla Banca, e che i cittadini “abbiano già riscontrato seri danni ambientali legati al progetto, risultanti dall’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo”.
Lo scorso 7 agosto il Meccanismo Indipendente ha pubblicato un rapporto in cui si annuncia la decisione della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo di disinvestire da Lydian e da Amulsar. Questa svolta è stata accolta con giubilo dagli attivisti dell’Armenian Environmental Front, che sul proprio sito internet hanno dichiarato: “la resistenza delle comunità locali e degli ambientalisti ha raggiunto il proprio obiettivo. […] Ora il ministero dell’ambiente deve revocare le conclusioni positive (il permesso) relative alla valutazione dell’impatto ambientale del progetto di Amulsar, che nel 2016 sono state accordate a Lydian dall’ex governo corrotto”. A tale proposito è stata lanciata una nuova petizione rivolta al governo armeno.
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Foto: Narek Aleksanyan (Hetq)