È il maggiore Marco Betti ai comandi del G-222 del 98° gruppo della 46° aerobrigata dell’Aeronautica Militare Italiana, nome in codice Lyra 34. Ed è lui che, in contatto con la torre di controllo di Martina Franca, affida alla radio di bordo le sue ultime drammatiche parole: “siamo in grave difficoltà”. Sono le 13.15 del 3 settembre 1992: il biturbo ad elica perde dapprima la coda avvitandosi sul proprio asse longitudinale, poi un’ala, quella sinistra. Infine la destra. Diventa incontrollabile, precipita verticalmente al suolo sulle pendici del monte Zec presso Fojnica a trenta chilometri da Sarajevo, dove era diretto. Con il maggiore Betti perdono la vita anche gli altri tre componenti dell’equipaggio, il secondo pilota Marco Rigliaco, e i tecnici di bordo, entrambi marescialli, Giuseppe Buttaglieri e Giuliano Velardi.
Il ponte aereo
Sarajevo non è una città come le altre in quel momento storico. È una città sotto assedio, da mesi, e in quella condizione vi rimarrà ancora per anni, tenuta sotto scacco dalle truppe del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, fino a “guadagnarsi” il poco lusinghiero primato di assedio più lungo della storia moderna, con le sue cicatrici ancora ben visibili. Neanche la missione degli aviatori italiani è una missione come le altre: partito da Spalato un’ora prima il volo fa parte, infatti, di un ponte aereo organizzato dall’ONU in ottemperanza alla risoluzione 761 del 29 giugno 1992 per sostenere la popolazione bosniaca stremata dal conflitto.
L’Italia vi partecipa con il G-222 e con un C-130: saranno migliaia le tonnellate di aiuti umanitari trasportati, beni di prima necessità, cibo, medicine, coperte. I velivoli sono alle dirette dipendenze dell’Alto commissariato per i rifugiati della Nazioni Unite (UNHCR) e hanno una livrea ONU ben visibile. Ad abbattere l’aereo italiano durante la fase di discesa furono due missili terra-aria SAM7 probabilmente di fabbricazione sovietica. Un terzo proiettile manca invece il bersaglio. Approfittando della bassa quota in fase di atterraggio i missili erano stati premeditatamente lanciati da terra con un’arma portatile autodiretta dalle sorgenti di calore costituite dai motori posto sotto le ali.
Un episodio non isolato, d’altra parte, visto che altri velivoli erano stati oggetto di aggressioni simili nei giorni e nelle settimane precedenti, a testimoniare la deliberata intenzione di boicottare lo sforzo internazionale volto ad allentare la morsa sulla popolazione civile. Il ponte aereo fu definitivamente interrotto nel gennaio del 1993, dopo oltre 2500 missioni, proprio per l’assenza dei requisiti minimi di sicurezza e i continui attacchi cui gli aerei umanitari erano sottoposti.
Le responsabilità
A distanza di anni la ricostruzione delle responsabilità di quell’atto non è ancora semplice e permangono tuttora ampi margini di dubbio: nell’area di Fojnica, infatti, agivano sia le truppe croato-bosniache che quelle bosgnacche, mentre era sicuramente più marginale la presenza serbo-bosniaca. Inchieste giornalistiche, in particolare quella condotta da Roberto Galli sulle colonne de Il Tirreno, attribuiscono alle milizie croate la colpa dell’accaduto, ma resta la considerazione che il fascicolo aperto dalla magistratura di Roma, cui seguì il deferimento per crimini di guerra al tribunale dell’Aja di dieci cittadini croato-bosniaci, si è concluso con un nulla di fatto. Secondo quanto riportato da Bruno Maran nel suo libro “Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti” (Infinito Edizioni), inoltre, circoli militari e giornalisti attribuivano alla mano bosgnacca la responsabilità dell’evento, una tesi che non ha mai trovato riscontri.
Nel dicembre del 1992 i quattro militari del Lyra 34 sono stati insigniti della Medaglia d’Oro al Valor Militare dall’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro e sul luogo dell’accaduto è stata eretta, nel 1998, una piccola lapide commemorativa dove ogni anno si officia una cerimonia in ricordo.
Betti e i suoi commilitoni non furono, tuttavia, le uniche vittime italiane negli anni del conflitto in Bosnia Erzegovina: furono 15 in totale, infatti, militari e civili. Tra di esse, ultimi in ordine di tempo, i giornalisti della sede RAI di Trieste Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, dilaniati da una granata a Mostar il 28 gennaio 1994 mentre stavano realizzando una serie di servizi sulle condizioni di vita dei bambini in quella guerra.
L’iscrizione sulla lapide dedicata all’equipaggio del Lyra 34 recita: “caduti perché vivano gli altri”. Al netto delle mille contraddizioni e responsabilità dell’ONU in Bosnia Erzegovina, essa inquadra con ogni probabilità lo spirito che aveva animato i nostri militari in un contesto così drammatico.
Foto: pagina Facebook 46 Brigata