di Alessandro Balzaretti
Strana lingua il romeno: più vicino al latino di quanto lo sia l’italiano, ha conservato dell’antica lingua le declinazioni e l’assenza dell’articolo. Circondato da popoli slavi, il romeno è rimasto “fedele” ai Romani, i dominatori, e ha fatto propria la lingua straniera, l’ha assorbita con la stessa diligenza di quel cittadino romano – Ovidio – che in esilio a Tomi (oggi Costanza) scrisse poesie nell’idioma dei barbari (il daco). La letteratura romena è d’altronde una storia di esili e di disperazioni. L’aspetto moderno e spensierato di Costanza, la città di mare dove due millenni fa approdò la triste nave latina, nasconde a fatica le lamentazioni di Ovidio, in quello strano lago che è il Mar Nero dove si spensero i fasti e gli svaghi romani.
In terra romena nacquero i Tristia, invettiva sconsolata di un poeta in esilio dalla civiltà. Questo fatto accidentale, questo destino individuale ha segnato l’umore di un’intera stirpe di intellettuali, l’inconscio collettivo di una nazione in esilio da se stessa: Emil Cioran, Constantin Noica, Mircea Eliade, Nina Cassian, Paul Celan. Nomi di filosofi e poeti in esilio in Francia (Cioran, Celan) e negli Stati Uniti (Cassian, Eliade). A chi è rimasto in patria, come Noica, non è stata risparmiata la condanna a un esilio domestico, fra le mura di una prigione o nella propria abitazione: il filosofo scontò infatti sei anni di lavori forzati negli anni Sessanta.
Il destino di un popolo di schiavi, avrebbe detto Cioran. A Roma ancora troneggia la colonna traiana, dove spirali di bassorilievi raccontano l’asservimento dei Daci, gli antichi barbari di quelle terre danubiane. Chissà se Constantin Brâncuși, scultore romeno, pensò all’antica colonna quando creò la Colonna Infinita (1937), misterioso totem dorato che pare raggiungere il cielo.
La storia di una schiavitù, ma anche di una disperata ricerca spirituale, di una filosofia votata alla trascendenza, di filosofi ossessionati dalla metafisica. Il Breviario dei vinti di Cioran, scritto a Parigi tra 1941 e 1944, è la storia di una filosofia sconfitta dall’ottimismo della metafisica tradizionale, che ha messo al bando la disperazione, il dubbio, la fermezza di un Io finalmente al centro del proprio pensiero. La filosofia di un popolo di sconfitti, di vinti.
“Era scritto che noi, discendenti dei Daci e di altre popolazioni incerte, non consolidassimo alcun pensiero di felicità e che le gocce del nostro sangue formassero un rosario di dispiaceri ereditati da generazioni di vinti. Il sospiro e la maledizione furono la nostra strategia di pastori strappati a qualche stella moribonda, destinati ad ascendere al cielo e a svilirsi invece nel tempo” (Emil Cioran, Breviario dei vinti).
I romeni di Parigi: Cioran e Celan
In esilio a Parigi, Cioran è assediato dalla noia. “Venezia è confortante, se la si paragona con la fascinosa disperazione delle strade dissolventi di Parigi”. In quella stessa Senna, dove dice di scendere “nell’annegamento rituale delle sue inclinazioni malinconiche”, troverà la morte il poeta Celan, suo connazionale, nel 1970.
Schiavitù e libertà: l’originalità della filosofia romena consiste proprio in quell’estrema libertà di pensiero dell’uomo in esilio, di chi è nato ai margini dell’Europa, di chi non è in debito con nessuno. Sotto l’analisi di Noica, i grandi autori del canone occidentale sprigionano una verità fuori dal tempo, finalmente liberati dal peso della tradizione storica e storicistica. Finalmente sdebitati.
Le notti parigine di Cioran, tormentate dall’insonnia, gli hanno donato una lucidità ossessiva. Il non-essere, la notte del pensiero e della storia, è elevata alla positività dell’essere da una metafisica sui generis. L’assurdo e il paradosso, la libertà totale dell’espressione sfiora l’insensatezza, che ci conduce dritto all’opera di un altro romeno illustre, ancora un franco-romeno: Eugène Ionesco e il suo teatro dell’assurdo.
I romeni d’oltreoceano: Eliade e Cassian
A Chicago insegnò Mircea Eliade, storico delle religioni, antropologo, filosofo. A New York si rifugiò invece Nina Cassian, poetessa. Entrambi minacciati dalla dittatura di Ceaușescu, che mise al bando le opere degli esuli. Cassian scrive poesie dure e a un tempo fiabesche, ma che rifiutano un’unica visione del mondo. Pare che il rigetto di ogni sistematicità sia un tratto distintivo di tutti gli esuli romeni. “Svaniti gli animali / svanito il mondo intero. / Cosa resta? / L’arrogante Weltanschauung.” scrive Nina Cassian. E Cioran aggiunge: “il sistema è la morte dei filosofi e degli imperatori”.
Per lo storico Eliade il rifiuto del sistema si articola nell’analisi dei riti e costumi dei popoli primitivi. In La nascita mistica (1958) studia le tribù australiane, gli sciamani siberiani, i riti di iniziazione greci e indiani: il suo è uno sguardo che si disperde nella pluralità dei miti e delle religioni, ma che ricerca – con l’autentico e malcelato anelito che soltanto un esule può dimostrare – l’origine e la genesi di un unico fenomeno.
Scrive Cassian sul tema: “Sono sangue del sangue dei miei antenati / anziani sapienti e rassegnati, loro sanno dietro la porta cosa c’è […]. Di tanta conoscenza il mio popolo è livido”. L’anima romena è un’anima in esilio, la figura del desiderio alla ricerca della rimozione originaria. È l’irrequietezza di un popolo biblico affidata all’individualità di grandi intellettuali costretti ad affrontare il deserto della Storia, una terra inospitale, i duri Carpazi e i desolati boulevard parigini. Filosofi e poeti soli davanti alla propria solitudine e ubriachi di malinconia.
“Il desiderio della libertà assoluta, il desiderio di rompere i legami che tengono ancorati alla terra e di liberarsi dai propri limiti, si colloca tra le nostalgie essenziali dell’uomo” (Mircea Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli di iniziazione).