Lo abbiamo scritto più volte negli ultimi giorni: dalla sera di domenica 9 agosto, quando si sono chiusi i seggi elettorali in tutta la Bielorussia, imperversano nel paese proteste, per lo più pacifiche, che vengono sedate con ignobile violenza da (gran parte de)lle forze dell’ordine governative. Violenze documentate che proseguono durante arresti deliberati nelle prigioni e nei centri di detenzione. Ciononostante la popolazione bielorussa non demorde nelle città, nelle campagne, nelle fabbriche. Almeno cinquemila persone si sono ritrovate il giorno di Ferragosto presso la stazione metro Puškinskaja a Minsk per ricordare Aleksandr Tarajkovskij, 34enne morto il 10 agosto durante la repressione della protesta. La violenza di questa settimana è l’all-in di un regime che non ha più carte da giocare per continuare a guidare la partita.
Il ruolo delle donne
C’è chi si domanda se Svjatlana Tichanovskaja sia una leader davvero forte e quale sia il ruolo di donne (schierate nell’avanguardia, ben visibili e notiziabili) e uomini (nella retroguardia) in questi sommovimenti sociali, in realtà iniziati alcuni anni fa e non scoppiati dal nulla con questa tornata elettorale. Si parla in ogni caso di una realtà fortemente patriarcale: le donne che protestano lo fanno “forti” della “debolezza” loro assegnata per tradizione, la stessa “debolezza” che Lukašenko deve avere in fondo sottovalutato in partenza ammettendo la competizione con Tichanovskaja.
Una folla eterogenea
In realtà, nelle piazze e nelle vie delle città – grandi e piccole – e persino nelle aree più rurali, tradizionali roccaforti di chi vorrebbe solo stabilità e continuità (che esse siano garantite o meno dal solito Lukašenko, in fondo poco conta) c’è di tutto: una folla eterogenea, e per questo inevitabilmente in parte scoordinata, su cui parte (ancora una piccola minoranza, s’intende) delle forze dell’ordine già dopo qualche giorno ha trovato difficoltà nel fare violenza.
Non è come in Russia
L’eterogeneità delle piazze bielorusse è una specificità che distingue queste proteste da tutte quelle osservate negli ultimi anni nella vicina Russia post-sovietica: non è piazza Bolotnaja (maggio 2012), benché possa ricordarla, perché allora la folla era molto più omogenea, composta di giovani, per lo più mediamente istruiti e consapevoli della situazione socio-politica del paese; non sono le proteste russe degli ultimi mesi, che tra discariche, innalzamento dell’età pensionabile, processi ingiusti, sono in genere state scatenate da problemi specifici, per quanto l’insofferenza verso il regime putiniano sia un motivo di sottofondo che risuona in tutte.
Non è come in Ucraina
Allo stesso modo la folla in protesta in tutta la Bielorussia non è una versione locale del Maidan ucraino: manca l’aspetto “geopolitico” che caratterizzava le manifestazioni di Kiev, durante le quali si invocava – in ucraino, ma anche in russo, è bene ricordarlo – in primo luogo un decis(iv)o cambio di rotta e prospettiva, dall’est all’ovest. Un aspetto che, come riassume bene questo articolo firmato dal direttore del think tank Carnegie, rende, ahimè, meno interessanti queste proteste agli occhi europei.
La folla bielorussa non è orientata verso est o verso ovest, è semplicemente concentrata sui propri problemi interni e sulla necessità di cambiamento: non è un caso che una delle canzoni più volte risuonate nelle piazze questi giorni sia la storica hit del gruppo Kino “Peremen!” (1987), in cui il cantante-mito Viktor Tsoi invocava cambiamenti per quella che era un’Urss ormai agli sgoccioli. I cambiamenti che invocano le proteste in Bielorussia sono quelli che dal collasso dell’esperimento sovietico non ci sono stati.
Si è rotto il patto con Lukašenko
Quello che c’era, e questo è un merito suo malgrado di Lukašenko, è un contratto sociale forte, un patto tra la figura del presidente e la popolazione, qualcosa che però ha finito per rendere la Bielorussia ostaggio dello stesso Lukašenko. Su cosa si basava questo patto? Sulla garanzia di stabilità e continuità; su un certo grado di benessere diffuso (che permetteva in fondo a non pochi cittadini bielorussi di concedersi anche viaggi europei); su un’economia tenuta in piedi da prezzi più che calmierati delle risorse energetiche russe da poter addirittura rivendere a prezzi di mercato; su un comparto alimentare di sostegno al grande vicino orientale usato anche negli ultimi anni ai fini di aggirare le sanzioni reciproche tra Ue e Russia; su una lungimirante politica IT che, guidata da Valerij Tsepkalo (lo stesso candidato cui Lukašenko ha vietato la corsa a queste presidenziali e che ora ha lanciato un fondo di sostegno al suo paese dall’Ucraina), ha permesso l’inaugurazione nel 2005 del fiorente Belarus Hi-Tech Park, una vera e propria Silicon Valley su suolo europeo. Quella stagione oggi è finita (anche dal punto di vista energetico), il contratto sociale si è sfaldato e a Lukašenko non restano che, letteralmente, le ultime cartucce da sparare su una popolazione in rivolta pacifica.
Il tango con Mosca
E mentre il ministro degli Interni bielorusso Jurij Karaev porge le proprie scuse formali alla popolazione per gli atti dei suoi siloviki, il presidente cerca ora un confronto con la controparte russa, dalla quale in realtà – a fini spesso prettamente elettorali – si è voluto smarcare in più momenti negli ultimi anni: almeno dal 2014, dall’annessione della Crimea e dall’inizio del conflitto nel Donbass ucraino, infatti Lukašenko si è voluto presentare ai suoi concittadini come il paladino della difesa dell’indipendenza bielorussa e ha preso a ballare un tango sempre più sconnesso con il Cremlino, un atteggiamento mal digerito da quest’ultimo; ora, rivolgendosi a Mosca, tuttavia afferma che quella attuale “è una minaccia non per la sola Bielorussia” e che i due paesi intendono continuare a intrattenere relazioni di alleanza.
Il rebus dell’opposizione
Che Svjatlana Tichanovskaja, ora, come noto, in Lituania, si riveli una leader forte o debole e capire se sarà capace di capitalizzare i sommovimenti sociali e dar loro una concreta linea politica, sono quesiti cui risponderà il tempo. Come sempre, è difficile e spesso pericoloso cercare di enucleare ciò che c’è dietro a un’opposizione: il Viktor Orban che conosciamo oggi viene fuori dalla dissidenza all’interno del regime comunista ungherese. Come sottolineava il politologo Jacques Rupnik che intervistavo qualche tempo fa, “ci sono evidentemente più motivi che portano a essere dissidenti: non lo si è solo in difesa dei diritti umani, delle libertà, della democrazia. Cosa possiamo sapere noi di cosa si nasconde dietro a una dissidenza?”.
Non sono proteste anti-russe
Ciò che vediamo oggi avvenire in Bielorussia non è una richiesta di inversione di rotta a carattere geopolitico, nelle piazze non ci sono evidenti sentimenti anti-russi, non si approfondisce alcun dissidio su base linguistica o nazionale, non si invoca una riscrittura della storia, non ci si sente più europei e meno russi. Nelle piazze bielorusse oggi ci si sente semplicemente bielorussi, finalmente, pienamente e fieramente bielorussi, a prescindere dalla lingua che si parla o dall’orientamento geopolitico che si auspica. Nelle piazze è tornata a sventolare la bandiera bianco-rossa, in sostituzione dell’attuale (“sovietica”): si tratta della bandiera della Bielorussia indipendente utilizzata nel 1918, 1944 e tra 1991 e 1995, da anni ormai divenuta simbolo dell’opposizione al regime di Lukašenko.
—
La foto utilizzata per questo articolo mi è stata suggerita da un’amica bielorussa, corredata da questo suo commento:
«Si dice che le donne a bordo portino sfortuna*… ma può anche essere possibile il contrario? Chissà, una donna a bordo può forse garantire un viaggio tranquillo e la felicità dei propri cari. In nome dell’onestà e dell’apertura, di un futuro migliore e della libertà».
*Secondo il detto russo «Женщина на корабле – к беде», una donna in nave porta disgrazia.