Il Caucaso, la montagna delle lingue, così i geografi arabi chiamavano questa regione. Una regione che da sempre è mosaico culturale, linguistico e religioso, crocevia di popoli in fuga, di sconfitti e fuggiaschi, di esiliati e sopravvissuti. Popoli dai nomi che sanno di steppa e scorrerie, nogai, calmucchi, avari, o che sembrano il frutto di esotiche reminiscenze, assiri, talisci, balcari. Tra questi, i vainachi, un gruppo etno-linguistico che comprende ceceni, ingusci e kist. Il loro etnonimo, nakh o vainakh, che significa “la nostra gente“, è attestato per la prima volta in epoca piuttosto recente, frutto dell’ansia denominativa degli etnografi russi. Ma queste popolazioni sono più antiche, come mostrano le architetture tradizionali sparse nella regione, unite in tradizioni e culti che solo nel XIV secolo lasceranno spazio all’Islam.
Si trattava però di un Islam periferico, capace di associare la fede nel Profeta alla tolleranza e al sincretismo. E questa loro fede, mistica e montana, legata alle pratiche del sufismo, è rimasta per secoli incastonata tra le cime del Caucaso.
L’arrivo di genti vainache nella valle del Pankisi si fa risalire alla metà del XIX secolo quando, spinti dalle difficoltà economiche, da alcune faide interne e dalla pressione dell’invasione russa, un gruppo di clan ceceni decise di attraversare le montagne del Grande Caucaso per stabilirsi nelle valli meridionali, all’interno del territorio georgiano. In prima battuta, si stanziarono nella regione georgiana del Tianeti ma furono costretti a spostarsi a seguito della decisione, da parte delle autorità zariste, di concentrare tutti gli emigranti ceceni in una sola area. Alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento vennero spinti a dirigersi verso la valle del Pankisi, ai margini dell’attuale stato georgiano, dove era presente già una piccola comunità di emigrati ceceni.
Qui conservarono le proprie tradizioni, la lingua, la religione e una peculiare struttura sociale, ispirata all’egualitarismo e organizzata in clan autonomi, senza mai interrompere i rapporti con i confratelli ceceni rimasti più a nord, nel Caucaso russo. I georgiani presero a chiamarli kist. La loro storia è strettamente intrecciata con quella dei ceceni, con le loro guerre, deportazioni, disgrazie.
Poche migliaia di persone
Secondo i dati ufficiali, oggi i kist sarebbero circa 12 mila persone. Tra gli anni Settanta e Ottanta, la disoccupazione e le difficoltà economiche hanno spinto molti giovani all’emigrazione, specialmente in Russia, ma l’arrivo di profughi dalla Cecenia durante gli anni Novanta ha più che raddoppiato una popolazione che sembrava destinata a scomparire. Tuttavia, alcuni dati forniti dalle organizzazioni non governative che operano nella valle, parlano di appena seimila kist attualmente residenti in Pankisi e suddivisi in sei villaggi: Duisi, Dzibakhevi, Jokolo, Shua Khalatsani, Omalo, e Birkiani. Quest’ultimo è popolato anche da georgiani. Il primo villaggio a essere costruito è stato Duisi il cui nome originale era Pengiz, da cui il nome della valle. Dopo il loro arrivo in Pankisi subirono una rapida acculturazione, come indicano i suffissi georgiani (-ishvili, che significa “figlio di”) applicati ai nomi di famiglia, ancora oggi ben evidenti.
L’organizzazione sociale
L’organizzazione sociale è ancora oggi di tipo clanico. Alla base di tutto c’è il gruppo familiare (tsa,”casa”), diretto dal capofamiglia, al di sopra del quale vi è il clan (teip), formato da un consiglio degli anziani i cui membri vengono eletti democraticamente tra i capifamiglia di ogni tsa. Il teip ha il compito di dirimere ogni questione o disputa interna, oltre a prendere decisioni di tipo politico ed economico. Al di sopra del teip vi è il tukkhum, ovvero un’alleanza tra clan formata a sua volta da un consiglio composto dai più eminenti rappresentanti di ogni teip. L’unione delle diverse alleanze dà infine vita alla nazione (kham), il livello più alto della struttura sociale dei kist, la quale comprende idealmente l’intero territorio attualmente popolato dalle genti vainache.
Confraternite sufi
Dal punto di vista religioso i kist del Pankisi si dividono in due comunità a cui corrisponde l’appartenenza a una delle due confraternite sufi. Il sufismo è una corrente mistica ed esoterica dell’Islam, avversata dalle dottrine più ortodosse. Ogni confraternita è presente in ogni villaggio e in ogni villaggio è guidata da un capo anziano che fa parte del teip. Non ci sono tensioni tra le due confraternite. Lo stesso non può dirsi nei confronti dei seguaci del wahhabismo il cui numero è in aumento negli ultimi anni.
L’avvento del wahhabismo
Il wahhabismo predica una visione ultra-ortodossa dell’Islam, ed è servito a unire le tribù della penisola araba nel XVIII secolo, fornendo i fondamenti per l’edificazione dell’attuale stato saudita. Esso rappresenta una versione del salafismo, una sua interpretazione locale, ma dalla metà del XX secolo le due correnti islamiche sono ormai indistinguibili. Esse sono ritenute eretiche dalla giurisprudenza islamica (fiqh) e dalle relative correnti interpretative (madhhab). Questo non ha impedito il diffondersi del fondamentalismo che è giunto nel Caucaso negli anni Novanta, al seguito di signori della guerra come Ibn al-Khattab, veterano del conflitto in Afghanistan contro i sovietici, e Shamil Basaev, guerrigliero ceceno, eroe e macellaio delle guerre russo-cecene degli Novanta e Duemila.
Proprio con l’arrivo delle truppe di Shamil Basaev nel Pankisi, si diffuse anche nella valle il fondamentalismo religioso, spezzando un secolare equilibrio. Da allora, il Pankisi è una delle basi per il reclutamento di mujaheddin pronti a immolarsi sui vari fronti della guerra santa, ultimo quello aperto dall’ISIS nel Medio Oriente. Questo ha dato al Pankisi una fama sinistra, buona per i giornali, sempre in cerca di mostri da sbattere in prima pagina. Una fama che ha costretto gli abitanti della valle a vivere in un contesto di crescente emarginazione, vittime di facili pregiudizi e trattati come nemici dalle istituzioni locali.
La piccola e la grande storia
La società dei kist oggi è lacerata, le tradizioni vengono dimenticate mentre i giovani, senza futuro, abbracciano il fondamentalismo per fame e disperazione. È questa la vicenda che fa da sfondo a Interno Pankisi (Infinto edizioni, 2022), un racconto in cui la piccola storia individuale si intreccia con la più grande storia delle guerre, del potere, del fondamentalismo religioso. Una storia che mostra, attraverso la finzione narrativa, il dramma di una comunità colta nel momento della sua trasformazione, della perdita dell’identità e della tradizione, sottolineando come essa sia più vittima che complice del diffondersi del fanatismo e del terrorismo.
—
foto di Matteo Zola