di Luca D’Alessandro
Un metro e novantasette, muscolatura smilza e guizzante, un corpo creato per giocare un certo tipo élitario di pallacanestro. Con la palla in mano mostra un talento innato imbarazzante. È leggiadro, sinuoso nei movimenti controtempo rispetto agli altri giocatori in campo. Palleggia spesso con lentezza, portando la palla sopra l’altezza delle anche, senza dare l’impressione di voler spingere troppo. E poi, voilà, dopo qualche attimo arriva il guizzo che accende l’azione: una partenza bruciante che buca la difesa; un passaggio illuminante a trovare spazi per altri ancora oscuri, solitamente impreziosito da accorgimenti stilistici come un no-look, o un dietro-schiena sorprendente, ma il miglior colpo rimane la “frustata” di polso a una sola mano direttamente dal palleggio.
Però ciò che più cattura l’occhio è la capacità di segnare, da qualsiasi posizione del campo, con impressionante facilità. Ha una tecnica di tiro pulita, elegante, che non viene sporcata le numerose volte che cerca la conclusione senza equilibrio mentre salta in testa agli avversari.
Da Tuzla a Sarajevo
È questo lo show che si trova davanti il giovanissimo allenatore montenegrino Bogdan “Boša” Tanjević, allenatore del KK Bosna. La squadra nata nell’Università di Sarajevo è riuscita l’anno precedente ad arrivare per la prima volta in prima divisione jugoslava, al suo debutto in panchina. Tra gli obiettivi per rinforzare la rosa c’è questo diciottenne che ha già quattro stagioni tra i senior nello Sloboda Tuzla, la squadra della sua città che viene allietata dai quarantelli infilati ogni volta che scende in campo. Si chiama Mirza Delibašić, e Boša rimane estasiato ogni volta che lo vede giocare.
Tanjević riesce a entrare nella psiche del ragazzo. Stringono subito un rapporto che va oltre quello tra allenatore e (probabile) giocatore, d’altronde ci sono solo pochi anni di differenza. La visione della squadra del montenegrino è chiara: un sistema di gioco organizzato, preciso, ogni giocatore fornito di precise istruzioni tattiche. In questo schema Delibašić rappresenta il punto di rottura, la variabile incalcolabile, colui che gode di totale libertà, con l’obiettivo di elevare il livello del gioco di tutta la squadra. Un’opportunità troppo golosa da rifiutare, impossibile da trovare al Partizan o alla Stella Rossa che pure provano in tutti i modi a far firmare il gioiellino bosniaco.
Sul tetto d’Europa
Si rivelerà la mossa corretta per la sua carriera. Sarajevo lo accoglie come il figliol prodigo da tempo perduto, il condottiero del caldissimo palazzetto di Skenderija, mentre Boša lo aiuta soprattutto nel mantenere una forma atletica stabile nonostante lo stile di vita dissoluto, in cui alcool e sigarette la fanno da padrone.
Delibašić ripaga tutti sul campo, trascinando il Bosna al suo storico primo titolo nazionale nel 1978, ma soprattutto alla leggendaria campagna di Coppa dei Campioni 1979. La squadra jugoslava arriva fino alla finale giocata al Palais des Sports di Grenoble, contro quella Emerson Varese capace di giocare la sua decima finale europea consecutiva. Gli italiani hanno un team anziano ma di grande esperienza, guidati da Dino Meneghin capace di giocare una manciata di minuti nonostante un braccio rotto. Il Bosna invece è giovane e affamato di vittorie, e nonostante una strenua resistenza di Varese gli slavi vincono 96-93. Delibašić come al solito illumina il gioco della squadra di Tanjević non solo con i soliti canestri, ma gestendo il pallone alla sua maniera e soprattutto mettendo in condizioni un caldissimo Žarko Varajić di segnare 14 tiri dal campo e ottenere 21 liberi, per complessivi 45 punti. Per la prima volta una squadra balcanica è sul tetto d’Europa.
Dopo aver vinto tutto in patria, e aver dominato con una delle Nazionali jugoslave più forti di sempre (due ori europei, uno mondiale e l’alloro alle Olimpiadi “mutilate” di Mosca 1980), Mirza sente la necessità di una nuova esperienza. Il Real Madrid non si lascia scappare l’occasione e lo ingaggia subito, formando una coppia formidabile con l’altro balcanico Dražen Dalipagić. I due si intendono a meraviglia e sfornano alcune delle prestazioni più entusiasmanti mai viste a Madrid, che porteranno alla conquista di un campionato e una Coppa di Spagna. Ma nella vita privata i tre anni lontano da casa sono un disastro: la moglie Branka chiede il divorzio e Delibašić cade di nuovo vittima di sé stesso e dei suoi vizi. Nell’estate 1983, a soli 29 anni, dopo tre stagioni altalenanti e con la forma di un ex atleta, Mirza Delibašić sembra non esser più in grado di giocare ad alti livelli con tranquillità.
Ultima speranza: Caserta
Arriva però una chiamata, dall’unica persona che in un momento del genere può salvarlo, e arriva da Caserta. È nella città campana che Boša Tanjević si è spostato a insegnare pallacanestro e decide di prendersi di nuovo cura del suo prodigio prediletto. Dietro promessa solenne di tagliare bionde e grappa convince patron Maggiò a farlo firmare, così da formare un’altra coppia di illuminati del gioco insieme al brasiliano Oscar Schmidt. Delibašić si allena con la squadra, migliora di giorno in giorno, ma di ritorno dal ritiro di Bormio un vaso sanguigno nel suo cranio cede di schianto: l’emorragia cerebrale che ne consegue rischia seriamente di portarselo via, ma riuscirà a sopravvivere. Dopo mesi di convalescenza però diventa tristemente chiaro che non metterà più piede in campo.
Non può far altro che tornare nella sua città d’adozione, quella Sarajevo dove ha vissuto gli anni migliori della sua vita. Così vivrà lì anche il peggior periodo, quello della guerra fratricida che insozza quella meravigliosa parte dei Balcani. Rischiando seriamente la vita decide di dare una mano come può e si improvvisa allenatore della neonata Nazionale che guiderà agli Europei in Germania. Riesce a sopravvivere alla guerra, ma ormai povero e purtroppo sempre con la bottiglia in mano. Alla fine il suo corpo non regge più e Mirza Delibašić malinconicamente ci lascia l’8 dicembre 2001.
Foto: Listal