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UCRAINA: L’influenza americana e le pressioni di Biden. Un nuovo scandalo è servito

È scoppiato un altro caso politico che catapulta l’Ucraina al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. La pubblicazione di alcune conversazioni tra l’ex-presidente ucraino, Petro Porošenko e le alte cariche dell’amministrazione Obama, su tutti il vicepresidente Joe Biden e il segretario di stato John Kerry, gettano nuova luce  sullinfluenza americana su Kiev e sul conflitto d’interessi della famiglia Biden. Mentre il vicepresidente americano era la figura di fiducia dell’amministrazione USA in Ucraina, infatti, suo figlio, Hunter Biden, nell’aprile 2014 – appena qualche settimana dopo l’annessione russa della Crimea – diventava membro del board direttivo di un’opaca azienda energetica ucraina, la Burisma.

Nuovo caso, vecchi intrecci

Presentate come prove del ‘controllo esterno’ al quale sarebbe stata sottoposta l’Ucraina e collusione tra Biden e Porošenko per insabbiare le presunte malefatte di Burisma e del figlio di Biden, le intercettazioni in verità restituiscono una storia più complessa e meno stilizzata. Non solo perché si tratta di pezzi estrapolati da conversazioni evidentemente più lunghe.  Nonostante le forti accuse volate ai danni di Biden e Porošenko nella conferenza stampa di presentazione delle intercettazioni, infatti, manca l’arma fumante che possa inchiodare definitivamente i ‘colpevoli’.

Il deputato che ha reso pubbliche le intercettazioni, Andrij Derkač, è una vecchia conoscenza della politica ucraina. In parlamento dal 1998, ex membro del Partito delle Regioni (del fuggitivo ex-presidente Viktor Janukovyč) e considerato uno dei parlamentari sotto l’ala protettrice dell’oligarca Ihor Kolomoyskyi, Derkač è stato il punto di contatto in Ucraina dell’amministrazione Trump da quando il presidente americano ha cercato di ravvivare il caso Burisma. Proprio Derkač nell’ultimo anno si è incontrato più volte con Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e agente informale di Trump in Ucraina, finito nel mezzo dello scandalo che ha portato al tentativo di impeachment ai danni dal presidente americano.

Ciononostante, dismettere le intercettazioni semplicemente come teorie cospirazioniste volte a screditare quel sant’uomo di Biden, cosa che alcuni media si sono affrettati a fare – non molto sorprendentemente visti i tempi che corrono – appare altrettanto banale e riduttivo. In tutta questa storia non ci sono buoni e cattivi, ma interessi, segreti e potere.

Burisma e Hunter Biden, ancora

Sono due i punti centrali su cui sembra puntare l’accusa. Il primo riguarda le pressioni su Porošenko da parte di John Kerry e Joe Biden nel 2016 per forzare il licenziamento del procuratore generale, Viktor Šokin, e conseguentemente ‘insabbiare’ le indagini sul caso Burisma che coinvolgevano il figlio del vicepresidente USA, Hunter Biden. Sebbene non emergano elementi nuovi riguardo alle reali intenzioni di Biden dietro alla richiesta di licenziamento del procuratore, alcuni passaggi sono comunque interessanti.

Il primo fatto che emerge chiaramente dalle intercettazioni è che il prestito americano di 1 miliardo di dollari era – diciamo informalmente – vincolato ad una serie di condizioni tra cui proprio il licenziamento di Šokin (cosa, tra l’altro già risaputa). Il secondo, forse anche più interessante, è che Porošenko obbedì pur ammettendo di non avere elementi che potessero dimostrare che il procuratore fosse corrotto o mettesse qualsivoglia freno a indagini anti-corruzione.

Šokin – va ricordato – era a quel tempo sotto accusa di mal gestione da una parte dell’opinione pubblica, dall’ambasciata americana e dai vari think tank vicini al dipartimento di stato USA come l’Atlantic Council. Il fatto che nel 2017 l’Atlantic Council abbia ricevuto un cospicuo finanziamento proprio da parte di Burisma (tra i 100,000 e 250,000 dollari) è probabilmente un’altra storia, ma di certo complica ulteriormente l’intreccio tra soldi, interessi e potere.

A quattro anni di distanza nessuna delle accuse ai danni di Šokin è stata dimostrata, tanto che lo stesso ex-procuratore sta attualmente provando a dimostrare l’illegalità del suo licenziamento.

Finanziamento dei partiti politici?

Il secondo punto di grande interesse che emerge dal dialogo tra Biden e Porošenko è la presunta influenza dell’ambasciata americana su alcune formazioni politiche all’interno del Parlamento ucraino. In particolare, nella discussione inerente al rimpasto di governo avvenuto nel 2016, quando il premier Arsenij Jacenjuk fu sostituito da Volodymyr Groysman, il presidente ucraino fa una serie di chiare richieste agli americani. Aumentare la pressione su un partito in particolare, Samopomič, affinché si unisse alla nuova maggioranza, facendo leva sul “significativo supporto finanziario” che quest’ultimo avrebbe ricevuto proprio dagli americani. Biden, risponde piuttosto chiaramente: “Va bene, faremo il possibile per farvi avere i voti [necessari]”. Samopomič, va notato, si asterrà dal votare il governo Groysman e rimarrà fuori dalla nuova maggioranza.

Il punto centrale qui non è tanto il potere di esercitare pressioni da parte di Washington su una serie di partiti in Ucraina. Non sarebbe una novità, se non per chi ancora crede che questi strumenti di pressione siano alieni al modo di far politica di Washington. Quello che è più interessante è il fatto che dalle intercettazioni emergerebbe un presunto finanziamento, tramite l’ambasciata americana a Kiev, di alcune formazioni politiche, tra cui appunto Samopomič. Il finanziamento di partiti politici da parte di entità e governi stranieri è, infatti, vietato dalla legge sui partiti politici. Verrebbe da chiedersi perché e come l’ambasciata americana finanziasse alcune formazioni politiche. E perché quest’eventuale violazione della legge non sembrava preoccupare più di tanto il presidente ucraino. Domande retoriche, ovviamente.

Un nuovo QualcosaGate?

Anche se quello che emerge dalle intercettazioni non è l’arma fumante che possa dimostrare la presunta ‘corruzione internazionale’ e il ‘controllo’ da parte americana su Kiev, il livello del coinvolgimento dell’amministrazione USA negli affari ucraini appare sorprendente e forse molto più intenso di quello che ci si potesse aspettare. Biden sembra in qualche misura influenzare non solo questioni strategiche – come le pressioni per accelerare il processo di nazionalizzazione di PrivatBank (istituto appartenente all’oligarca Kolomoyskyi) costato al budget ucraino diversi miliardi di hrivne – ma anche questioni di minore importanza, come la politica delle nomine all’interno della procura o le schermaglie politiche all’interno del parlamento. Porošenko, ad esempio, sembra quasi chiedere il permesso di poter nominare il suo fedele alleato, Jurij Lutsenko, come nuovo procuratore generale.

Tutto questo, a conti fatti, sembra quasi un grande favore all’attuale presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che dopo un anno in carica appare già in crisi di consensi per il suo apparente immobilismo in materia di riforme. Spostare l’attenzione sul vecchio presidente potrebbe fargli guadagnare un po’ di tempo, e forse anche qualche punto.

Ma la pubblicazione delle intercettazioni potrebbe avere un impatto anche sulla politica interna americana. Qui torna in ballo il ruolo di Giuliani e il tentativo, nemmeno molto celato, dell’amministrazione Trump di screditare Biden e il partito democratico. Non è forse una coincidenza che il ‘caso Biden’ sia scoppiato appena qualche settimana dopo che negli Stati Uniti sono emersi nuovi dettagli che punterebbero il dito sugli abusi di potere delle agenzie di sicurezza (FBI) e corruzione nelle indagini sull’interferenza del Cremlino nelle elezioni del 2016. Se i sostenitori di Trump si sono affrettati ad urlare all’ObamaGate, non ci vorrà molto prima che anche le vicende di Biden e Porošenko possano diventare un nuovo BidenGate o BurismaGate, mostrandoci ancora una volta tutta la schizofrenia della politica americana. Tra le mura del Cremlino, probabilmente, osservano divertiti.

Se gli ultimi anni ci hanno insegnato qualcosa, non aspettiamoci armi fumanti, ma piuttosto un tedioso gioco di accuse destinato ad avvelenare ulteriormente la politica ucraina, e non solo. Forse, non ne sentivamo davvero il bisogno.

Foto: Reuters / Jonathan Ernst

Chi è Oleksiy Bondarenko

Nato a Kiev nel 1987. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna (sede di Forlì), si interessa di Ucraina, Russia, Asia Centrale e dello spazio post-sovietico più in generale. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in politiche comparate presso la University of Kent (UK) dove svolge anche il ruolo di Assistant lecturer. Il focus della sua ricerca è l’interazione tra federalismo e regionalismo in Russia. Per East Journal si occupa di Ucraina e Russia. Collabora anche con Osservatorio Balcani e Caucaso.

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