Lo scorso 13 maggio Joanikije Mićović, vescovo della Chiesa ortodossa serba della diocesi montenegrina di Budimlja-Nikšić, è stato arrestato e trattenuto dalla polizia per 72 ore, insieme ad altri sette preti, con l’accusa di aver infranto le norme straordinarie di contenimento dell’epidemia di Covid-19 nel Paese. Il giorno precedente, il vescovo aveva guidato una processione per celebrare la ricorrenza di San Basilio di Ostrog, riunendo, nonostante i divieti, un buon numero di persone.
A seguito dell’arresto, molti cittadini si sono radunati di fronte alla cattedrale di Nikšić per mostrare il proprio sostegno al vescovo, mentre in diverse città del Montenegro sono scoppiate proteste, caratterizzate anche da scontri con la polizia. Il fatto è tracimato presto in una questione politica, aggiungendo un nuovo capitolo allo scontro fra il governo del Montenegro e la Chiesa ortodossa serba, che potrebbe avere riflessi anche sulle elezioni parlamentari, che si terranno molto probabilmente a settembre.
I complicati rapporti con la Chiesa ortodossa serba
In Montenegro esistono due chiese ortodosse, una montenegrina, che ha dichiarato la sua autocefalia negli anni ’90, e una serba, che ritiene invece il Montenegro parte del suo territorio canonico, non riconoscendo la prima. Le due chiese riflettono le due identità nazionali che convivono, con qualche difficoltà, all’interno della società, due identità che hanno riflessi evidentemente anche politici. Il principale partito governativo, il Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro (DPS), cui appartiene il presidente Milo Đukanović, padrone della politica del Paese da quasi trent’anni, raccoglie consensi soprattutto fra la popolazione di identità montenegrina. La maggiore forza di opposizione, composta da diversi partiti, è, invece, il Fronte Democratico (DF), che mantiene forti legami con Belgrado.
Inevitabilmente, anche l’arresto del vescovo Joanikije ha scatenato il confronto politico fra le due parti. La Chiesa ortodossa serba ha ricevuto l’appoggio della vicina Serbia, che segue sempre attentamente la situazione, nel tentativo di pestare i piedi all’élite di governo montenegrina, che ha condotto il Paese prima all’indipendenza e poi all’entrata nella NATO, allontanandolo di fatto da Belgrado. Gli stessi rappresentanti della Chiesa serba non sembrano interessati ad abbassare i toni: il metropolita Amfilohije Radović ha paventato il rischio di una “guerra civile“, mentre il patriarca Irinej, in un incontro con il presidente della Serbia Aleksandar Vučić, ha accusato Đukanović di voler eliminare la nazione serba.
Dietro la facciata dell’arresto di un vescovo che ha disobbedito alle norme contro la diffusione del contagio si cela, quindi, un nuovo strappo di Đukanović nei confronti dell’opposizione filo-serba, di Belgrado e della stessa Chiesa ortodossa serba. La questione pare simile a quella della ridefinizione dei diritti di proprietà delle comunità religiose dello scorso dicembre, quando l’azione del governo, volta anche in quel caso a colpire la Chiesa ortodossa serba, scatenò una polemica analoga, frenata solo dal cinico calcolo della possibile perdita di voti in vista delle prossime elezioni.
Anche in questo caso, il governo dovrà prestare attenzione a non regalare alle opposizioni dei facili punti elettorali in vista di settembre, data la forte sensibilità della popolazione nei confronti degli attacchi alla Chiesa ortodossa. Ne sono prova un sondaggio di dicembre, che vedeva il 60% dei montenegrini contrario alla legge sulla ridefinizione dei diritti di proprietà delle comunità ecclesiastiche, e le proteste di piazza in favore del vescovo Joanikije di questi giorni. Una situazione simile a quella della Georgia, dove, in queste settimane, le disposizioni contro la diffusione dell’epidemia hanno generato un conflitto fra Chiesa ortodossa e governo, con probabili riflessi sull’orientamento di un elettorato profondamente legato alle istituzioni religiose.
Il fermento delle piazze e i passi indietro della democrazia
Gli scontri di questi giorni in Montenegro mostrano un Paese sul punto di ribollire, incendiato da un discorso politico spesso sopra le righe di un confronto istituzionale e democratico. Il fermento delle piazze fa da contrappunto a un forte rafforzamento del potere del governo, guidato da un’élite apparentemente irremovibile, che ha portato il Montenegro a perdere la qualifica di “paese democratico” nell’ultimo report di Freedom House: non succedeva dal 2003. Anche la libertà di stampa è messa in forte discussione. Ne è prova la breve detenzione di Veliša Kadić, giornalista del quotidiano belgradese Večernje Novosti, in occasione proprio degli scontri di Nikšić. Secondo quanto riportato dai media locali, la polizia avrebbe aggredito Kadić con dello spray al peperoncino e cancellato alcuni video dal suo telefono.
D’altra parte, l’opposizione, composta da diverse forze che insistono su una retorica aggressiva, nazionalista e anti-europeista, non sembra in grado di proporre un’alternativa valida al DPS. Il DF, inoltre, ha un’immagine pesantemente compromessa dal tentato colpo di stato del 2016, cui diversi suoi esponenti hanno collaborato. Oggi, non esiste in Montenegro una forte formazione progressista e moderata che possa proporre anche a Bruxelles, oltre che agli elettori, un nuovo punto di riferimento diverso da Đukanović.
In queste condizioni, è difficile immaginare un cambiamento nei rapporti di forza interni alla politica montenegrina. Non sarebbe una sorpresa se, a settembre, si vedesse replicato lo scenario del 2018, riassunto dallo scrittore Andrej Nikolaidis sulla base di una celebre frase del calciatore inglese Gary Lineker: “Le elezioni sono un gioco con più candidati in cui vince sempre Milo Đukanović“.
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