Giovedì 14 maggio il Parlamento europeo si è riunito in seduta plenaria per dibattere, ancora una volta, di Ungheria e del suo stato di emergenza. Nonostante nei giorni precedenti fosse stata offerta a Viktor Orbán la possibilità di partecipare alla discussione in aula, il primo ministro ungherese – per evitare il confronto diretto – ha proposto la presenza della sua ministra della Giustizia, Judit Varga, ben sapendo che per regolamento a quel tipo di sessione possono partecipare solo capi di stato o di governo. Il prevedibile rifiuto del presidente dell’assemblea David Sassoli ha offerto al leader di Fidesz l’ennesimo pretesto per rafforzare la sua retorica anti-UE, secondo uno schema ormai ben consolidato.
A un mese e mezzo dall’approvazione del tanto discusso pacchetto di norme anti-Covid, la “cura” ungherese comincia a produrre i suoi effetti più evidenti, ma non dal punto di vista sanitario. La pandemia, infatti, per diversi fattori riconducibili soprattutto ai tempi del suo ingresso e alla tempestività con cui è stato attivato il lockdown, non ha colpito i paesi dell’Europa Centro-orientale con la stessa drammatica intensità con cui si è abbattuta sul resto del continente. I numeri magiari del contagio, calmierati anche da un minor numero di tamponi diagnostici in rapporto alla popolazione, non offrono un quadro sostanzialmente dissimile da quello dei paesi confinanti. L’unica differenza notevole, invece, sta proprio nell’applicazione di quella parte delle misure che ha inciso sui diritti civili degli ungheresi.
Il bilancio dell’infezione autoritaria
I numeri che cominciano a preoccupare le opposizioni a Budapest sono le 114 indagini condotte, fino a qualche giorno fa, dalla polizia per la pubblicazione di informazioni ritenute “false” o “allarmanti” sui social. Indagini che hanno portato anche alla temporanea detenzione di decine di persone.
Tra queste c’è anche János Csóka-Szűcs, un membro del partito di opposizione Momentum, arrestato per aver condiviso il post di un deputato della minoranza parlamentare, Ákos Hadházy. Il post incriminante denunciava la controversa gestione dei ricoveri da parte del governo, che avrebbe comportato, nella sola città di Gyula, la deospedalizzazione di 1.170 pazienti non infetti per fare posto a malati di Covid-19 – un dato non confermato ufficialmente. L’attivista di Momentum sarebbe stato detenuto per quattro ore e avrebbe subìto anche il sequestro di tutti i suoi dispositivi informatici.
Solo il giorno prima, per aver esternato una dura critica alla politica di lockdown imposta dal governo per questo stato di emergenza, anche un pensionato di 64 anni era stato sottoposto a un trattamento simile. Il messaggio, pubblicato il mese scorso, includeva la seguente invettiva: “Sei uno spietato tiranno, ma ricorda che, finora, i dittatori sono sempre caduti”. La polizia aveva persino registrato e diffuso su YouTube un video – oggi rimosso – della perquisizione della casa dell’indagato e del suo arresto. Una manifestazione di particolare confidenza nella legittimità della propria condotta, grazie alla copertura legale fornitale dalle nuove norme emergenziali. Norme che il Parlamento europeo ha ritenuto incompatibili con i valori dell’Unione già lo scorso 17 aprile. Un concetto ribadito anche nell’ultima seduta, durante la quale diversi eurodeputati hanno sollecitato la Commissione e il Consiglio a procedere con l’articolo 7 del Trattato UE – attivando, quindi, la relativa procedura d’infrazione – e a sospendere i finanziamenti europei.
La prognosi è infausta per lo stato di diritto
Ma il 14 maggio l’Ungheria non è stata convocata al banco degli imputati solo davanti agli eurodeputati. Proprio quel giorno, infatti, è arrivata una dura condanna anche da parte della Corte di giustizia europea per l’illegittima detenzione di richiedenti asilo nella zona di transito di Röszke, al confine con la Serbia. Una detenzione caratterizzata da un sistema di deterrenza basato sulla sofferenza, che Erno Simon, portavoce dell’UNHCR, ha definito “completamente inaccettabile e inumano”.
La diagnosi sullo stato di diritto in Ungheria è impietosa. Nonostante sia tra i paesi che più hanno beneficiato dei fondi europei – anche in risposta all’emergenza epidemica – continua la deriva autoritaria del paese, supportata da una paradossale retorica antieuropeista e vittimista. Lo stesso giorno in cui la maggioranza di Orbán aveva approvato lo stato di emergenza (30 marzo), la Commissione UE sbloccava 37 miliardi di fondi di coesione inutilizzati per aiutare i paesi membri a contrastare il contagio. Ma non essendo stati aggiornati i criteri di ripartizione, l’erogazione delle risorse aveva prodotto esiti grotteschi. Infatti, mentre l’Ungheria, a fronte di una decina di decessi riconducibili alla nuova malattia, riceveva 5,6 miliardi di euro (3,9% del PIL), all’Italia, che aveva già dichiarato più di 9 mila morti, venivano versati “solo” 2,3 miliardi (0,1% del PIL).
Il paradosso: più fondi dall’Europa
Questo fiume di soldi europei, però, sembra continuare a sortire l’effetto di allontanare ulteriormente l’Ungheria dagli standard minimi di democrazia previsti dai trattati dell’Unione. Una situazione – confermata anche dagli ultimi rapporti di Freedom House e Reporter senza frontiere – che rende sempre meno comprensibile una gestione delle risorse comunitarie così accomodante nei confronti dello stato magiaro.
Forse il premier ungherese stesso se ne sta rendendo conto, avendo recentemente annunciato l’intenzione di revocare a breve lo stato di emergenza, la cui durata – caso unico in Occidente – è nella totale discrezionalità del potere esecutivo. Che sia giunto il momento di cambiare registro?