In Serbia si voterà il prossimo 21 giugno. Una scelta, annunciata dal presidente Aleksandar Vučić, che segue la revoca, da parte del parlamento, dello stato d’emergenza e del coprifuoco notturno nel paese. La decisione sopraggiunge dopo settimane di aspre critiche che le opposizioni hanno rivolto al governo, a cui si è unita anche parte della cittadinanza battendo simbolicamente le pentole dai balconi.
Il governo è accusato di aver attuato misure draconiane volte a politicizzare l’emergenza coronavirus a proprio vantaggio e di aver appoggiato gruppi di hooligan che si sono espressi con toni violenti contro gli oppositori del presidente Vučić. Questi eventi rappresentano pertanto un ulteriore campanello d’allarme per la democrazia serba, già alle prese con un livello di corruzione diffusa e con gli atteggiamenti sempre più illiberali di Vučić.
La strumentalizzazione dell’emergenza
Con il sostegno dei principali media filo-governativi, il presidente serbo ha potuto sfruttare l’emergenza coronavirus per comparire quotidianamente sugli schermi e autopromuoversi come il principale salvatore della nazione.
Questa linea di condotta è stata poi rafforzata dalla decisione del governo serbo di introdurre un sussidio “una tantum” di circa 100 euro a tutti i cittadini maggiorenni. Una misura evidentemente mirata ad aumentare il consenso elettorale del partito di Vučić, il Partito progressista serbo (SNS).
Rumore contro il regime
In un momento in cui le sedute parlamentari erano sospese, la strategia di Vučić di strumentalizzare l’emergenza ha naturalmente suscitato parecchi malumori tra le fila dell’opposizione. A questi si sono aggiunti diversi cittadini che hanno voluto esternare simbolicamente il proprio dissenso mettendo musica ad alto volume, intonando fischi e battendo pentole dai balconi delle proprie abitazioni.
La protesta, chiamata collettivamente “Rumore contro la dittatura”, è stata lanciata dal movimento cittadino “Ne Davimo Beograd” (Non affondiamo Belgrado), già attivo contro la speculazione edilizia nel quartiere di Savamala, che si è dato appuntamento ogni sera alle 20:05, cinque minuti dopo gli applausi al personale sanitario in prima linea contro l’emergenza coronavirus.
Invece, sul fronte dei sostenitori del partito di governo, gruppi di hooligan hanno acceso torce e fumogeni sui tetti di alcune città del paese. Questa forma di “contro-protesta” non ha soltanto infranto le disposizioni dettate dal coprifuoco ma si è scagliata, con particolare veemenza, anche contro i maggiori critici dell’operato del presidente Vučić.
Come denunciato da Dragan Đilas, uno dei leader dell’opposizione nel paese, gli hooligan hanno cercato di intimidirlo giungendo nei pressi della sua abitazione e lasciando i suoi familiari in stato di shock. Il presidente Vučić ha precisato di non avere alcuna responsabilità in merito a questi incidenti, affermando che sono stati opera di “associazioni giovanili”.
Un’opposizione frammentata
I movimenti di opposizione in Serbia non sembrano però perseguire una strategia condivisa in vista delle prossime elezioni legislative. Il capitale politico costruito in queste settimane di mobilitazioni potrebbe così andar perso a beneficio della popolarità di Vučić.
Mentre in un primo momento i maggiori partiti di opposizione avevano deciso di boicottare in blocco le elezioni, il “Movimento dei cittadini liberi” (PSG) di Sergej Trifunović si è smarcato, esprimendo la volontà di partecipare alle consultazioni. Analogamente, il Partito socialdemocratico (SDS) dell’ex presidente Boris Tadić ha proposto la creazione di una lista elettorale unitaria, criticando la scelta di disertare completamente le urne. Secondo Tadić, tale strategia potrebbe garantire un maggiore potere negoziale all’opposizione.
La principale piattaforma d’opposizione rimasta a difendere il boicottaggio delle urne è l’Alleanza per la Serbia (SZS), al cui interno permangono però differenze insormontabili. Da un lato vi troviamo forze europeiste e moderate come il Partito della Libertà e della Giustizia (SSP) di Đilas, il Partito Popolare (NS) di Vuk Jeremić e il Partito Democratico (DS). Dall’altro, all’estrema destra in questo blocco politico, si situa il movimento Dveri guidato da Boško Obradović, apertamente filorusso e nazionalista.
Obradović è stato uno dei maggiori protagonisti di queste settimane di proteste, compiendo azioni eclatanti. Nella sessione parlamentare che aveva decretato la revoca dello stato d’emergenza ha inscenato una protesta fischiando contro il governo, venendo poi allontanato dall’aula per schiamazzi e per non aver rispettato le distanze di sicurezza. Due giorni dopo, l’8 maggio, insieme ad altri militanti di Dveri ha cercato di impedire l’ingresso in parlamento al ministro della Salute, Zlatibor Lončar. Infine, ha iniziato uno sciopero della fame per denunciare il tradimento dell’attuale governo in merito alla sovranità della Serbia sul Kosovo e per chiedere un posticipo della data delle elezioni.
Il boicottaggio, unica strada per delegittimare Vučić?
Andare alle urne il 21 giugno rappresenta invece, per Vučić, un obiettivo primario. Con le opposizioni ancora incerte sulla strategia elettorale da perseguire, il Partito progressista serbo vuole capitalizzare al più presto il vantaggio. Il trasferimento diretto di 100 euro a tutti i maggiorenni è una misura che profuma di campagna elettorale, già sbilanciata da un sistema dei media ben lontano dagli standard democratici.
C’è una sola condizione che potrebbe diventare un grattacapo per l’attuale partito di governo: un‘azione unitaria delle opposizioni. In particolare, un parlamento delegittimato da una bassa affluenza alle urne dovuta al boicottaggio delle forze anti-governative potrebbe rappresentare un colpo rilevante al regime illiberale creato dal partito di Vučić. A tal riguardo, è lecito chiedersi se il “rumore” delle opposizioni riuscirà a trasformarsi in polifonia o resterà un disarmonico strepito senza alcuna capacità di incidere sul futuro della Serbia.
Foto: Reuters