Secondo i dati della Commissione europea, coronaeconomy fa rima con recessione, la più grande della storia dell’UE. Quattro i paesi che, nel 2020, avranno il Pil che sprofonderà sotto il 9%: sono la Grecia, l’Italia, la Spagna e la Croazia, contro una media europea che si “limiterà” ad un -7,5%, un dato simile a quello sloveno. È evidente che i quattro paesi citati – leader macroeconomici al negativo – sono tali a causa delle loro pregresse e perfino antiche debolezze. Per la Croazia il dato – pari a -9,1% di Pil per l’anno in corso – dovrebbe ricordare un episodio drammatico quanto lontano e delle fragilità purtroppo attuali.
L’episodio drammatico rimanda ai primi anni ’90, quando la guerra esplode in tutta la sua crudezza dentro gli stessi confini della repubblica secessionista (secessione, va ricordato, contemplata dalla monumentale e ultima Costituzione jugoslava del 1974). Ebbene nel 1991 – primo anno di guerra, Vukovar è il momento topico della domovinski rat in quell’anno – il Pil della Croazia cade del 21,1%, seguito l’anno dopo da un ulteriore tonfo di quasi il 12%, mentre il Pil pro capite addirittura si ridusse di un terzo. Vittima principale fu il turismo (specie adriatico), pilastro non solo dell’economia croata o montenegrina, ma di quella jugoslava tout court: in termini di reddito prodotto passò dai 100 milioni di dollari della metà degli anni Sessanta ai 2,5 miliardi di dollari al 1990 (sul ruolo anche sociale e “socialista” del turismo, si veda Yugoslavia’s Sunny Side, Ceu Press, 2010).
Se la pandemia genera il terzo segno meno del Pil della storia trentennale della giovane Repubblica croata, le fragilità strutturali ne enfatizzano il danno. Tre in particolare. La prima è (ancora) il turismo, punto di eccellenza ma anche tallone d’Achille perché troppo forte rispetto agli altri settori economici ma anche troppo debole per bastare allo sviluppo croato. Debole anche per le sue caratteristiche stagionali (l’estate e nient’altro) e geografiche (solo la lunga costa, che assorbe il 78% degli arrivi e il 90% delle camere, mentre il vasto interno pannonico è pressoché ignoto ai flussi turistici internazionali). Il turismo croato, che vale un quinto del Pil complessivo, è troppo dipendente da fattori esogeni come il clima, la concorrenza dei vicini paesi mediterranei, e ora la pandemia.
La seconda fragilità rimanda alla demografia delle emigrazioni, dato che se ne vanno quasi 40mila abitanti all’anno (dato 2018; 21mila nel 2014), per tre quarti verso paesi dell’Unione europea, mentre il bilancio naturale nati-morti cala al ritmo del 4 per mille annuo, desertificando soprattutto le aree interne come la Slavonia.
Infine il sistema politico-amministrativo appare centralistico ed elefantiaco, nonostante le promesse – opacamente disattese – di un suo ridimensionamento. La spesa della pubblica amministrazione è pari al 47% del Pil, per due terzi dovuta al governo centrale, mentre i pubblici dipendenti, 317mila, sono il 18% della forza lavoro complessiva e per l’87% fanno capo al governo centrale.
La pandemia, di conseguenza, sembra mettere a nudo vecchi processi di transizione e di privatizzazione non limpidi e non equilibrati, e in parte occultati da uno sviluppo recente (solo nel 2003 la Croazia recupera il Pil del 1990 prebellico) che comunque appare zavorrato e infragilito dai tre nodi irrisolti su descritti.