All’inizio del semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, il governo croato aveva presentato il Summit di Zagabria del 6 maggio come “una pietra miliare nella politica di allargamento”. L’incontro doveva servire a ridare nuovo slancio alla prospettiva europea dei Balcani Occidentali, a rinnovare lo spirito di collaborazione e a mostrare a tutta Europa che anche l’ultimo arrivato (la Croazia appunto) era in grado di ottenere importanti risultati. Risultati ancor più significativi se calati nel contesto balcanico dove i rapporti intra-regionali non sono proprio idilliaci.
E invece…
Per il ministro degli Esteri e degli Affari Europei croato, Gordan Grlić Radman, si è trattato di “un incontro che sarà ricordato per generazioni”. A dire il vero, però, il Summit di Zagabria è apparso più come una di quelle noiose riunioni aziendali di fine anno dove colleghi poco inclini alla reciproca simpatia fanno il punto sugli obiettivi raggiunti e sulle prospettive future, ripetendosi ogni anno sempre le stesse, vaghe, parole.
La colpa è in parte ascrivibile all’epidemia di Covid-19 che ha stravolto l’agenda politica europea e congelato qualsiasi discussione e decisione concreta sul futuro del processo di integrazione europea dei Balcani Occidentali. Lo svolgimento in videoconferenza ha tolto l’imbarazzo di foto di rito e strette di mano con finti sorrisi ma ha anche impedito discussioni bilaterali ravvicinate, spesso pari a veri e propri momenti decisionali. Dare la colpa solo al coronavirus equivale però a nascondere problemi esistenti da tempo.
Le decisioni del vertice
La prima decisione presa al Summit è un esempio lampante di come si continui a mettere la polvere sotto al tappeto. I partecipanti hanno infatti deciso di non utilizzare segni nazionali come stemmi, bandiere e il nome degli stati ma solo nome e cognome dei leader. Una scelta presa su espressa indicazione spagnola che, dato il mancato riconoscimento, voleva evitare in tutti i modi di equiparare il Kosovo a uno stato vero e proprio.
Per quanto riguarda la dichiarazione finale del Summit, questa appare come uno straordinario quanto vuoto esercizio retorico. In sei pagine i leader europei e i loro colleghi balcanici sono stati capaci di non nominare mai la parola “allargamento”. Tra i 20 punti elencati manca qualsiasi riferimento a concreti passi futuri, così come non si accenna mai alle questioni più spinose come il rapporto tra Serbia e Kosovo o il sempre precario equilibrio bosniaco. Su questi temi il punto 9 si limita a sottolineare la necessità di “ulteriori sforzi decisivi dedicati alla riconciliazione e alla stabilità regionale”. Un po’ poco per un “incontro storico”.
Gli altri punti ripetono quanto detto negli ultimi vent’anni: supporto alla prospettiva europea dei Balcani Occidentali, alla cooperazione, allo stato di diritto, alla democrazia, ai diritti umani. Parole che ormai non affascinano quasi più nessuno, non tanto per il loro significato intrinseco quanto per la vaghezza delle misure adottate per una loro effettiva applicazione.
L’unica decisione concreta del Summit era stata presa, in realtà, prima del suo svolgimento ed esattamente il 29 aprile scorso. In quella data l’Ue ha infatti deciso di adottare un pacchetto di aiuti per circa 3,3 miliardi di euro per far fronte alla crisi prodotta dall’epidemia di Covid-19.
Congiunti o semplici amici?
Se si volessero definire secondo le attuali categorie, UE e Balcani Occidentali si dovrebbero considerare “congiunti” o semplici “amici”? Che l’allargamento a Est dell’Unione registri una certa fatica è un problema che non nasce certo negli ultimi mesi. Se a questo aggiungiamo un’attesa di 25 anni dal violento divorzio jugoslavo per decidere se andare a convivere o meno (leggi adesione all’UE), allora è abbastanza semplice escludere l’ipotesi “congiunti”.
Di sicuro si tratta di un’amicizia. Di quelle complicate però, fatte di alti e bassi, continui litigi e riavvicinamenti, promesse e impegni non rispettati. L’ultimo grave episodio in tal senso è stato il rifiuto di Francia e Olanda all’avvio dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord a fine ottobre. Una decisione incomprensibile alla luce degli enormi sforzi compiuti dai due paesi, a cui si è posto rimedio solo a marzo. Negli ultimi anni l’UE è apparsa più volte incapace di svolgere un ruolo che andasse oltre la mediazione e fosse in grado di contribuire a raggiungere risultati concreti. Buona parte del cosiddetto Accordo di Bruxelles del 2013 tra Serbia e Kosovo, ad esempio, è rimasto negli anni lettera morta. La stessa gestione iniziale dell’emergenza coronavirus ha mostrato il fianco a critiche, contribuendo a dare l’immagine di un’Unione incapace di aiutare i propri partner. Debolezze che sono state sfruttate da altri attori, Stati Uniti e Cina su tutti.
Come in tutte le relazioni complicate, le colpe non sono mai unilaterali. E così, Unione e paesi dei Balcani si trovano a essere egualmente colpevoli per la disumana gestione delle frontiere e dei flussi migratori. Da parte loro i governi della regione negli ultimi anni hanno fatto di tutto per destare dubbi e preoccupazioni. Basti pensare al generalizzato arretramento degli standard democratici di tutti i paesi, alla fascinazione per derive autoritarie, al controllo politico dei media e alla corruzione diffusa nelle istituzioni.
Questo scenario, tutt’altro che positivo, richiederebbe ben più coraggio di quello mostrato fino ad adesso. A questo andrebbe affiancata una visione di medio e lungo periodo che, al di là dei tecnicismi, garantisca una prospettiva di sviluppo per la regione. Certo, prima di tutto bisognerebbe avere le idee chiare su sé stessi e decidere “cosa si vuol fare da grandi”. E anche su questo le certezze sono poche, da entrambi i lati.
Foto: Jurica Galoic/PIXSELL/EU2020HR