Tra le tante cose rimosse, negate o semplicemente sconosciute attorno alla Festa della Liberazione c’è la partecipazione, tra le brigate partigiane, di combattenti stranieri. Quella per cui la lotta contro il nazi-fascismo in Italia fu un evento solo italiano è una lettura incompleta. Furono infatti diverse migliaia i partigiani stranieri, rappresentanti circa 50 nazionalità, che si unirono agli italiani nella liberazione della penisola. I documenti storici a disposizione sono pochi, ma molto preziosi, e nel corso dei decenni, specie nell’immediato dopoguerra, di questa parte della storia si è perso traccia, facendo della Resistenza un movimento esclusivamente patriottico, prima che internazionalista.
Jugoslavi in Italia
Una delle più consistenti partecipazioni tra le suddette 50 nazionalità presenti tra i partigiani è quella degli jugoslavi. Uno dei principali contributi sul tema è “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana”, libro di Andrea Martocchia. Anche se non si conoscono con esattezza i numeri – sicuramente diverse centinaia – si sa che 175 di loro morirono in battaglia. Anche lo storico Alfredo Sasso si è occupato molto del fenomeno e il 25 aprile dell’anno scorso ne fece l’argomento di una puntata di Kiosk, programma radiofonico dell’emittente Radio Beckwith Evangelica, narrando alcune gesta di Kresimir “Cresci” Stojanovic, partigiano jugoslavo che combatté nel basso Piemonte. E a Cresci e alla dimensione internazionale della Resistenza in quelle zone, per il 75° anniversario della Liberazione, Sasso ha dedicato un lungo e ricco approfondimento per OBC.
Cresci era uno dei tanti jugoslavi che si trovava nelle prigioni italiane in seguito all’occupazione nazi-fascista della Jugoslavia: si trattava sia di soldati dell’esercito monarchico jugoslavo che di partigiani che già in patria dal 1941 combattevano gli invasori. In tutta Italia, erano almeno 60 i carceri e i campi di prigionia dove vennero trasferiti. Dopo l’armistizio del 1943 e il successivo caos istituzionale, molti di loro fuggirono: alcuni trovarono rifugio in Svizzera, altri si nascosero, molti altri, invece, si unirono alla lotta partigiana.
“Islafran”, un caso più unico che raro
Questa fu la genesi del battaglione Islafran, ovvero composto da italiani, slavi e francesi. L’unico di tutta la Resistenza a essere guidato da uno straniero: Eugenio Stipcevic, già comandante partigiano in Slovenia e in Dalmazia. Come riporta l’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo: “A metà maggio del 1944 tutti i gruppi partigiani dell’Alta Langa vennero riuniti in un’unica formazione, la 16ª brigata d’assalto Garibaldi generale Perotti, che dalla frazione Lunetta di San Benedetto Belbo controllava tre distaccamenti lungo le direttrici Somano-Monforte-Barolo-La Morra, Monforte-Dogliani, Bossolasco-Serralunga-Roddi. La forte presenza di stranieri all’interno della Brigata portò alla costituzione di un distaccamento plurinazionale, il cosiddetto «ISLAFRAN» (Italiani, SLAvi, FRANcesi), comandato da Eugenio Stipcevic, e dal vicecomandante Daniel Fauquier”.
A raccontare la storia dell’Islafran è stato soprattutto Ezio Zubbini, con il libro “Islafran. Storia di una formazione partigiana internazionale nelle Langhe”. Zubbini, il cui padre – Zubcic, cognome poi italianizzato – veniva dalla Dalmazia ed era un membro della formazione internazionale, racconta per L’Espresso che “l’Islafran arriverà a contare 120 combattenti, parteciperà alla difesa di Alba nella fase finale dei “23 giorni” [ovvero l’esperienza della Repubblica partigiana di Alba, tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1944], condurrà incursioni con le tattiche della guerriglia e combattimenti lunghi un giorno intero, farà saltare vari ponti con esplosivo al plastico, assalterà il presidio tedesco di Dogliani, resisterà ai rastrellamenti condotti con duemila uomini e mezzi corazzati da tedeschi e truppe di Salò, combatterà fino alla liberazione di Torino il 27 aprile del ’45”.
Una memoria persa?
Eppure, quando Zubbini racconta dell’Islafran ci parla di un episodio della storia che lui stesso apprese dal padre con fatica e col contagocce. Una memoria che non venne giustamente conservata nei territori da cui generò, per lo più per questioni politiche locali. Nel dopoguerra, il basso Piemonte sarebbe divenuto un feudo della Democrazia Cristiana, la cui impostazione ideologica contrastava con quella dei partigiani jugoslavi – e sovietici – di estrazione comunista.
Il dopoguerra vide inoltre l’aprirsi della questione di Trieste e dell’Istria, che mise quasi sul piede di guerra Italia e Jugoslavia e contribuì a spazzar via la comune memoria antifascista. Una tesi sostenuta anche da Alfredo Sasso che, oltre alle problematiche geopolitiche e ideologiche del confine orientale, sostiene che si tratti di una narrazione manchevole: “Da parte italiana non si riconosce a sufficienza il ruolo dei partigiani stranieri: prevale una narrazione patriottica della resistenza, più che internazionalista. Inoltre, le divisioni circa Trieste e l’Istria, così come quelle che derivarono dalla rottura tra Tito e Stalin del 1948, generano forti polarizzazioni tra le associazioni partigiane. Tutto ciò rende difficile la rielaborazione e la trasmissione di una memoria coerente”. Un problema che spiega il silenzio in tutti questi anni e la scarsità di fonti.
Una dimostrazione, infine, di come le nazioni in Europa restino infinitamente attratte e contagiate da impostazioni narrative esclusivamente etno-nazionali, che vedono nel popolo di appartenenza l’epicentro della storia collettiva, anche negli episodi della Resistenza. Impostazione contraria all’essenza stessa dell’antifascismo, di per sé internazionalista, inclusivo e trasversale.