Dal genocidio armeno alla nascita del jazz in Etiopia

Gli eventi tragici del genocidio del 1915 sono all’origine della moderna diaspora armena: anche se le stime variano, circa 8 milioni di armeni vivono oggi sparsi per il mondo, di cui solo tre milioni residenti in Armenia. Non è raro quindi trovare in molte città, a diverse latitudini, delle steli che riproducono o evocano una croce di pietra (khachk’ar), simbolo della cultura armena cristiana. Spesso, al di fuori dai territori storicamente popolati dagli armeni, queste steli rappresentano anche un monumento eretto dalla diaspora in memoria del genocidio.

Addis Abeba è una di queste città: una piccola comunità armena, composta da circa un centinaio di persone, risiede oggi nella capitale dell’Etiopia – paese che con l’Armenia condivide anche l’appartenenza al cristianesimo ortodosso orientale. Sebbene la sua presenza passi oggi praticamente inosservata, dalla fine degli anni venti del Novecento la comunità armena ha giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo culturale e musicale dell’Etiopia.

Quaranta bambini e una banda di ottoni

La storia di come un gruppo di orfani del genocidio armeno abbia trasformato la cultura musicale dell’Etiopia è poco nota e ha dei tratti quasi leggendari. Tutto inizia nel 1924, quando il reggente e principe ereditario etiope, ras Tafari Maconnèn si reca in visita a Gerusalemme, per una missione diplomatica legata al recente ingresso dell’Etiopia nella Società delle Nazioni. Visitando il quartiere armeno, ras Tafari si imbatte in un’orchestra di strada composta da quaranta giovani ragazzi, dal cui talento rimane impressionato. Durante una conversazione con il Patriarca armeno di Gerusalemme, il principe scopre che i giovani sono orfani del genocidio del 1915. Toccato dalla loro storia, decide di adottarli e portarli con sé ad Addis Abeba.

In Etiopia, il gruppo diventa noto con il nome di Arba Lijoch (quaranta bambini, in lingua amarica). Il principe provvede a fornire agli Arba Lijoch una vera e propria educazione musicale, che li porterà pochi anni dopo a formare la Royal Imperial Brass Band, la prima banda di ottoni dell’Etiopia. Questa ha un successo straordinario anche grazie al talento del suo direttore, il maestro Kevork Nalbandian. Anch’egli orfano del genocidio armeno, rifugiatosi prima in Siria e poi in Egitto, Nalbandian era stato scelto personalmente dal ras Tafari Macconnèn per formare e dirigere gli Arba Lijoch, nonché per comporre un inno nazionale per l’Etiopia. Intitolato “Sii felice, Etiopia”, l’inno viene interpretato per la prima volta dalla Royal Imperial Brass Band il 2 novembre 1930, giorno in cui il ras viene nominato imperatore con il nome di Hailé Selassié I.

Un aneddoto, che sarebbe stato tramandato da uno degli Arba Lijoch, racconta che la banda era solita suonare gli inni nazionali in occasione delle visite di diplomatici stranieri. Un giorno, ai membri della banda sarebbe stato ordinato di imparare l’inno della Turchia per dare il benvenuto alla delegazione turca. I quaranta orfani rifiutarono di imparare “l’inno del paese che aveva ucciso i loro genitori”; di fronte ai diplomatici turchi, l’orchestra eseguì invece un brano tradizionale armeno.

Ascolta questa storia anche su Kiosk – Voci e idee da luoghi non comuni, programma radiofonico che nasce in collaborazione con Radio Beckwith, Most Associazione e East Journal.

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I Nalbandian e la nascita dell’ethio-jazz

In un contesto tradizionalmente dominato dagli strumenti a corde (come il krar, una sorta di lira), l’uso degli ottoni da parte della Royal Imperial Brass Band segna una vera e propria rivoluzione nella musica etiope, spianando la strada all’ethio-jazz, un genere che si svilupperà nei decenni successivi. Le innovazioni musicali introdotte da Kevork Nalbandian saranno portate avanti da suo nipote Nerses, trasferitosi dalla Siria all’Etiopia sulle orme dello zio.

Dopo la liberazione del paese dall’occupazione italiana alla fine degli anni ’40, Nerses Nalbandian sostituisce lo zio alla direzione delle principali istituzioni musicali del paese (l’orchestra della Guardia Imperiale, l’orchestra della Polizia, l’orchestra municipale di Addis Abeba), diventando anche direttore di due scuole di musica. Violinista, pianista, sassofonista e fisarmonicista, oltre ad essere direttore d’orchestra Nerses Nalbandian è anche compositore e arrangiatore. Il suo principale lascito è quello di aver integrato le basi della musica tradizionale etiope (come la scala pentatonica e i ritmi ternari) con dei princìpi musicali ispirati alla musica classica occidentale e al jazz – modernizzandola, pur senza stravolgerne i parametri.

Negli anni ’50, i padri fondatori dell’ethio-jazz, come Mahmoud Ahmed, Alemayehu Eshete o Mulatku Astatke, iniziano la propria carriera all’interno delle istituzioni musicali ufficiali dirette da Nalbandian, o ne sono fortemente influenzati. Come spiega Francis Falceto, etnomusicologo francese che ha fortemente contribuito alla diffusione internazionale dell’ethio-jazz (attraverso una serie di compilations intitolate Ethiopiques), all’epoca queste istituzioni ufficiali – legate ai corpi militari o delle forze dell’ordine – erano le uniche ad essere autorizzate. Progressivamente, queste iniziano però a discostarsi dalla musica tradizionale e ad aprire dei veri e propri “night club”, dando spazio a ritmi più jazz e ballabili. La cosiddetta belle époque dell’ethio-jazz sarà bruscamente interrotta dalla dittatura del Derg (la giunta militare di ispirazione comunista che governò l’Etiopia dal 1974 al 1987), a cui seguirà però una riscoperta del genere a partire dagli anni ’90.

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Sulle tracce della comunità armena in Etiopia, oggi

La lunga storia di connessioni musicali e commerciali che legano Armenia ed Etiopia è stata raccontata in un recente articolo apparso su BBC News, che rivela però anche delle prospettive poco rosee per il presente e il futuro della comunità armena di Addis Abeba. Se tra gli anni ‘30 e ‘60 del Novecento la comunità contava oltre 1200 membri (2000 secondo altre stime), la maggior parte degli armeni lasciò l’Etiopia quando la giunta militare del Derg avviò un processo di nazionalizzazione delle proprietà.

Oggi, la diaspora armena di Addis Abeba è composta da un centinaio di persone, perlopiù di età avanzata, mentre sono molti i giovani che partono per completare gli studi all’estero, senza fare ritorno. Nonostante tutto, la comunità riesce a mantenere dei legami attraverso diversi centri sociali e religiosi, come la scuola Kevorkoff, la chiesa apostolica di san Giorgio (ancora in funzione) e un club armeno, che comprende un ristorante dove viene servito cibo tradizionale.

Dal 2012, Aramazt Kalayjian, designer e regista statunitense di origine armena, sta lavorando ad un film che ha l’obiettivo di documentare la storia della comunità armena di Addis Abeba, riportandone alla luce la memoria collettiva. Il titolo del film, Tezeta, viene dal nome di un tipo di ballata jazz tradizionale. Come spiega il regista, la parola tezeta, che in amarico significa “ricordo” o “memoria”, trasmette anche un senso di nostalgia non facilmente traducibile. A causa della mancanza di finanziamenti, il processo di produzione e post-produzione di Tezeta si è rivelato lungo e complesso; la sua uscita, inizialmente prevista per il 2014, si prospetta forse per l’autunno di quest’anno.

Tra le tante storie raccontate dal film c’è quella del cantante pop Vahe Tilbian, armeno di quarta generazione, che nel 2015 ha rappresentato l’Armenia all’Eurovisione con il gruppo Genealogy (formato in occasione del centenario del genocidio armeno). In un contesto in cui la comunità armena di Addis Abeba rischia di scomparire, Tilbian cerca di preservare e trasmettere attraverso la propria musica un senso di appartenenza a entrambe le culture, armena ed etiope, combinandone i ritmi, gli strumenti e le lingue.

 

Immagine: www.rbe.it

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

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