Il 5 ottobre 2000 Slobodan Milošević era costretto a lasciare Belgrado. La democrazia aveva vinto e il paese poteva finalmente cominciare a guardare all’Europa. Almeno così pensavano in molti.
A 20 anni di distanza, difficilmente la Serbia può considerarsi una democrazia compiuta. La scena politica è dominata dal Partito Progressista Serbo (SNS) e dal presidente della Repubblica Aleksandar Vučić, vero deus ex machina della politica serba.
Una democrazia messa ulteriormente in discussione dall’emergenza coronavirus, tempesta perfetta per una nuova stretta autoritaria, e dalle pericolose amicizie internazionali.
La gestione dell’emergenza
Dopo una prima fase di sottovalutazione del virus, a partire dal 15 marzo il governo si è allineato alle misure adottate in tanti altri paesi. In quella data è stato dichiarato lo stato di emergenza mentre il giorno successivo la Commissione elettorale ha posticipato a data da destinarsi le elezioni politiche previste per il 26 aprile. Il 17 marzo è stato inoltre imposto il coprifuoco, dalle 17:00 alle 5:00 nei giorni feriali e durante l’intero weekend. Nonostante le misure, il numero di nuovi casi continua a crescere in maniera preoccupante, per un totale di oltre 4 mila contagiati e 85 morti (al 13 aprile). Anche il figlio del presidente, Danilo, è risultato positivo al virus, come annunciato dallo stesso Vučić sulla sua pagina Instagram.
Se la diffusione del contagio pone dei dubbi sulla gestione dell’emergenza e mette a nudo le difficoltà di un sistema sanitario già fragile, dal punto di vista politico la situazione non sembra essere migliore. Già prima della crisi, infatti, il paese registrava un preoccupante arretramento nella qualità della propria democrazia. Controllo dei media, silenziamento delle opposizioni, forti reti clientelari e corruzione erano diventati, negli ultimi anni, la normalità. Con l’attuale crisi il governo sembra voler assestare un altro, forse decisivo, colpo alla democrazia. Lo stato di emergenza esautora di fatto il parlamento, accentra i poteri nelle mani del governo ed elimina qualsiasi possibile opposizione politica.
Il controllo dei media
Il 28 marzo il governo adottava inoltre una nuova norma che prevedeva che tutte le informazioni riguardanti l’emergenza sanitaria, diffuse da soggetti diversi dallo Staff centrale di crisi, sarebbero state considerate non veritiere e perseguibili legalmente. È quello che è successo il giorno successivo alla giornalista di Nova.rs, Ana Lalić. Accusata di aver diffuso notizie non verificate sulle pessime condizioni di lavoro nel Centro clinico della Vojvodina a Novi Sad, la reporter è stata arrestata per 24 ore, mentre il suo appartamento veniva perquisito e il suo PC e due cellulari sequestrati. Le rimostranze esercitate dalle associazioni dei giornalisti hanno provocato il ritiro della norma controversa, corrispondente ad una vera e propria forma di censura. La premier Ana Brnabić ha dato il merito al presidente Vučić, che avrebbe espressamente richiesto il ritiro immediato del provvedimento.
Nonostante ciò, la repressione di ogni forma di dissenso continua. La scorsa settimana un assistente del sindaco della città di Novi Pazar è stato licenziato per essersi permesso di aver parlato, sul proprio profilo Facebook, della visita di Vučić per la consegna di materiale medico come di una “campagna politica”.
Relazioni pericolose
Il coronavirus sta avendo importanti ripercussioni anche sulle relazioni internazionali del paese. È ormai nota e datata la vicinanza con la Cina di Xi Jinping, che può contare su importanti investimenti infrastrutturali in Serbia. Un’alleanza strategica e sempre più stretta che ha spinto Vučić a dichiarare, lo scorso 15 marzo, che “la solidarietà europea non esiste […]. L’unica che ci può aiutare è la Cina”. La dichiarazione avveniva nel momento in cui alcuni paesi dell’Ue stabilivano un regime di autorizzazione alla vendita di materiale medico al di fuori dei confini dell’Unione – percepito come un bando. Questa dura affermazione mostra come il sostegno ottenuto da Pechino vada oltre la semplice solidarietà e rappresenti invece una forma di influenza politica in grado di spostare gli equilibri. Complici anche le attuali difficoltà dell’Ue, che comunque, nonostante le accuse di Vučić, finora ha già mobilitato per la Serbia risorse per 93 milioni di euro, 15 milioni sotto forma di aiuti e ulteriori 78 milioni come sostegno all’economia.
A rendere ancora più problematico il quadro concorrono le amicizie di Vučić con altri leader che mal digeriscono la democrazia. Proprio pochi giorni prima che il premier ungherese Viktor Orbán accentrasse su di sé tutti i poteri, i due si sono incontrati per ben due volte nel giro di una settimana. Tema degli incontri le relazioni bilaterali, la lotta al coronavirus, la crisi dei migranti e la politica estera dell’Ue.
Ancora più concreto il sostegno fornito da Vladimir Putin che ha inviato in Serbia 11 aerei militari con aiuti e attrezzature mediche. Supporto materiale ottenuto anche dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che la scorsa settimana ha fatto arrivare a Belgrado 100,000 mascherine, 2,000 tute protettive e 1500 tamponi.
Il rischio concreto è che, data la debolezza delle istituzioni e la mancanza di veri contrappesi in grado di limitare il potere esercitato da Vučić, finita l’emergenza il paese possa trasformarsi in uno stato autoritario a tutti gli effetti. Sulla scia di quanto già fatto (o tentato) dai suoi alleati.
Foto: Danar.rs