di Federico Tenca Montini*
Una ricerca di storia diplomatica presso il Maršalat, l’archivio personale di Tito, svela i faldoni contenenti centinaia di lettere, telegrammi e risoluzioni a sostegno delle rivendicazioni territoriali jugoslave su Trieste, Gorizia e Monfalcone. Di quelle scritte in italiano, molte, provenienti da località poste all’infuori della giurisdizione jugoslava, rivelano un sincero – e fino ad oggi sconosciuto – desiderio di molti italiani di confine, nei primi anni del dopoguerra: vivere nella Jugoslavia socialista. Alcune di queste lettere sono state tema di discussione a un evento nella cornice del progetto “Varcare la frontiera”.
Quando, il 9 giugno 1945, le truppe jugoslave abbandonarono Trieste, Monfalcone, Gorizia e Tarvisio che avevano liberate per prime, sul territorio conteso rimanevano le strutture del partito comunista di ispirazione filojugoslava. Ad esso andava di preferenza il consenso della popolazione slovena presente nell’area, del proletariato italiano, e la simpatia di molti intellettuali. Questi segmenti della società locale, evidentemente galvanizzati dalla breve parentesi di occupazione delle truppe di Tito, che aveva ribaltato le coordinate di organizzazione economiche e sociali precedenti, si candidarono nel dopoguerra ad un’azione di sostegno delle rivendicazioni territoriali jugoslave a tutto tondo. Gli strumenti prediletti furono un consistente sforzo propagandistico e uno spiccato antagonismo nei confronti dell’amministrazione temporanea angloamericana insediatasi nella regione.
L’entusiasmo per la Jugoslavia si spiega con la particolare asprezza della Seconda guerra mondiale in un territorio che fu prima amministrato con la caratteristica durezza del “fascismo di confine”, poi, dopo l’8 settembre 1943, era stato di fatto annesso al Terzo Reich che vi scatenò un’aspra lotta antipartigiana. A ridosso del confine, inoltre, la possibilità, percepita come reale alla fine della guerra, di vedere il territorio ceduto a Belgrado era fonte di entusiasmo per masse popolari attratte dalla prospettiva di un socialismo già reale a pochi chilometri di distanza, con cui il PCI non poteva certo competere. Era inoltre troppo presto per misurare lo scarto tra il “mito dell’URSS” e la sua realizzazione nella pratica.
Stanti queste premesse, le centinaia di lettere in italiano rinvenute presso l’archivio personale di Tito a Belgrado, in cui mi sono imbattuto durante la ricerca per la tesi di dottorato, si possono quindi definire difficilmente una sorpresa. Ciò però non diminuisce affatto il piacere di un ritrovamento che costringe a fare i conti con un passato un po’ diverso da quello che oggi si tende ad immaginare.
Traendo spunto da un ampio ventaglio di occasioni cerimoniali come dai principali appuntamenti di politica estera che tra Londra e Parigi scolpirono il confine italo-jugoslavo a forza di veti incrociati tra le grandi potenze e di stratagemmi, ondate di lettere, disegni e telegrammi giungevano a ondate sulla scrivania del Maresciallo testimoniando il desiderio di numerosi italiani di confine di passare alla Jugoslavia.
Si tratta in molti casi di risoluzioni sottoscritte collettivamente da varie associazioni collegate al partito comunista, una pratica che gli stessi quadri incoraggiavano al fine di coinvolgere i militanti. Talvolta, invece, il traumatico vissuto degli scriventi traspare chiaramente e tradisce uno slancio più ardito.
È il caso della lettera inviata a Belgrado da un appartenente alla famiglia dei Fontanot, nota per il proprio fervore antifascista:
“Compagno Maresciallo, il sangue dei figli del popolo di questa terra ha già bagnato l’erba dei nostri monti e la terra delle nostre strade. È sangue italiano e sloveno sparso assieme, perché ogni forma di fascismo e di oppressione sia abolita per sempre. Oggi nuovo sangue c’è per le vie e per le piazze di Trieste, ed ancora sparso da quel popolo in lotta sempre contro gli stessi sistemi, contro gli stessi uomini camuffati sotto un’altra veste, con altre parole d’ordine. E se sarà necessario, ancora ne verseremo pur di raggiungere quelle mete per cui il popolo ha combattuto e che oggi un regime imposto da reazionari e stranieri tenta di toglierci. Noi siamo certi che i popoli della Nuova Jugoslavia sono con noi, come prima nella guerra di Liberazione, così ora. Siamo certi che avremo da voi tutto l’appoggio e tutto l’aiuto perché sia realizzata finalmente la nostra aspirazione che è essere uniti alla Repubblica federativa democratica popolare di Jugoslavia.”
Un gruppo di antifasciste triestine nel febbraio del 1946 scrive al “Comandante generale dell’armata jugoslava” – cioè a Tito – auspicando che “quanto prima sarà risolta l’appartenenza territoriale della nostra terra […], raggiungendo quella meta [per cui] i nostri figli, nell’insegnarci la via, diedero la propria vita”. Nel maggio dello stesso anno furono delle donne di Monfalcone a mettere mano alla macchina da scrivere per assicurare che “nessuna manovra reazionaria potrà spezzare la nostra volontà come nessuna offensiva tedesca è riuscita a spezzare le file del Vostro glorioso Esercito di Liberazione Nazionale, la cui IV Armata liberò Trieste”. L’Unione antifascista italo-slava di Monfalcone inviò a Tito “i suoi migliori auguri uniti ai combattenti partigiani che sotto la Vostra guida hanno conquistato la libertà popolare ad abbattuto il vecchio apparato reazionario. Noi pure avevamo conquistato con la lotta armata il diritto di sceglierci il governo che più si confaceva ai nostri bisogni”.
I monfalconesi seppero dimostrarsi ancora più espliciti, inviando nell’estate del 1946 una serie di telegrammi che si concludevano con la formula “Vogliamo Tito nel Friuli”. Non si trattava di parole vuote. Proprio nell’estate del 1946, infatti, fu chiaro che Monfalcone, allora un centro industriale importante e dallo sviluppo piuttosto recente, sarebbe stata restituita all’Italia rimanendo addirittura fuori dal Territorio Libero di Trieste in fase di progettazione. Non essendo Tito a venire in Friuli (o per meglio dire nella Bisiacaria), furono i monfalconesi ad andare da Tito trasferendosi in gran numero in Jugoslavia.
*Federico Tenca Montini è dottore di ricerca in storia contemporanea presso le università di Teramo e Zagabria
Un commento
Pingback: STORIA: Gli italiani che chiesero a Tito l’annessione alla Jugoslavia — East Journal – friulimultietnico