Avevano cominciato di buon mattino, che ancora era buio, perché è così che facevano sempre.
Era un giorno di marzo del 1998, il 5 per la precisione, e quella che era appena iniziata era una lunga giornata di guerra, di brutalità assortite e di morti ammazzati, a decine: tra loro anche donne e bambini. Siamo nella Drenica, regione nel cuore del Kosovo, una manciata di chilometri a ovest di Pristina; l’omonimo fiume restituisce le sue acque al Mar Nero, in beffa all’Adriatico che è lì a due passi. La Drenica non è un posto come gli altri, è quasi esclusivamente abitata da albanesi: nel 1919 i suoi residenti si sono battuti contro l’annessione del Kosovo al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e, nel 1945, contro quella alla Jugoslavia socialista.
A sparare sui villaggi dell’area è l’artiglieria serba, ci vanno giù pesante, intervengono anche gli elicotteri, i cannoni, le mitragliatrici, quelle grosse: c’è da fermare sul nascere una rivolta, le rivendicazioni autonomiste degli albanesi kosovari. L’azione delle truppe serbe è inserita nell’ambito di un’operazione ben più ampia, che ha già prodotto migliaia di vittime e di sfollati. Bisogna approfittare delle indecisioni della diplomazia internazionale, che ancora cincischia e rimpalla e che non sa darsi una linea condivisa: un refrain già visto nelle guerre “sorelle” di Croazia e Bosnia Erzegovina. Con Ibrahim Rugova, guida degli albanesi del Kosovo, che chiede di fermare il massacro denunciando la pulizia etnica in atto, l’ONU che si riunisce ma non decide e la Russia che intima a non immischiarsi in faccende altrui. Kris Janovski, il portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) preconizzò “La nostra esperienza di sette anni di guerra nei Balcani ci ha insegnato che incidenti sporadici possono degenerare e trasformarsi in conflitti di grandi dimensioni”. Facile.
Quel giorno nella Drenica, nella roccaforte di Prekaz per la precisione, c’è anche Adem Jashari, comandante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), un gruppo di guerriglieri che Jashari stesso ha contribuito a fondare, nel 1997, dalle ceneri del Movimento popolare del Kosovo (LPK), un piccolo movimento nazionalista albanese di ispirazione marxista-leninista promotore della lotta armata come strumento per raggiungere l’indipendenza del Kosovo dalla Jugoslavia. All’epoca, l’UÇK è un gruppo di piccole dimensioni, guidato, oltre che da Jashari, dai giovani Hashim Thaçi, Ramush Haradinaj e Fatmir Limaj, finanziato dalla diaspora albanese sparsa per il mondo e bollato da Belgrado come un’organizzazione terroristica.
Jashari è asserragliato a casa sua con tutta la sua numerosissima famiglia, con lui anche il fratello Hamez, anch’egli combattente; i serbi lo vogliono, lo considerano un terrorista: pochi mesi prima i tribunali di Slobodan Milosevic l’hanno condannato, in un processo zeppo di violazioni secondo Human Right Watch. Negli anni precedenti, infatti, Jashari e i suoi uomini si sono resi protagonisti di numerose azioni contro postazioni serbe con lo scopo di attirare l’attenzione internazionale sulle drammatiche condizioni della popolazione albanese in Kosovo. Azioni sanguinose non prive di conseguenze per la stessa popolazione civile kosovara, che ne subiva le rabbiose ritorsioni.
La battaglia di Prekaz dura tre giorni, la casa di Jashari è bombardata a colpi di mortaio e poi presa d’assalto. Jashari muore col kalashnikov in mano, come si conviene ad uno come lui, non prima d’aver ucciso un numero imprecisato di soldati serbi, ma comunque a decine. La sua famiglia è sterminata, 52 membri in tutto, 18 sono bambini.
A salvarsi è solo Besarta, la nipote, dieci anni all’epoca dei fatti: è lei a raccontare la storia, oggi, per filo e per segno, ad una troupe della BBC: la madre che l’abbraccia e la salva, lo zio riverso sul pavimento della stanza dove si impasta il pane. Capelli lunghi, occhi scuri che parlano da soli, non c’è odio o risentimento nelle sue parole, come solo le donne sanno fare. C’è anzi ispirazione: “pensare a quello che è successo alla mia famiglia e al Kosovo mi fa andare avanti con la mia vita, cercando di rendere mio padre e mio fratello orgogliosi di me”.
Nelle guerre, soprattutto in certe guerre, i simboli valgono come una battaglia vinta. E certi personaggi sembrano fatti apposta per incarnare questi simboli, per rappresentarli, per fungere da riferimento e da guida. Personaggi nati per essere eroi, se questo termine non fosse abusato e non suonasse così fastidiosamente retorico. Per gli albanesi del Kosovo, Adem Jashari, “Komandanti Legjendar” come lo chiamano, è sicuramente uno di questi.
La sua casa è diventata un memoriale recensito su Tripadvisor, le sue gesta sono raccontate ancor’oggi in canzoni e nella letteratura kosovara, sono decine i monumenti che lo raffigurano. ll campo in cui è sepolto con la sua famiglia è diventato un luogo di pellegrinaggio, mentre lo stadio di calcio a Mitrovica, il teatro nazionale di Pristina e l’aeroporto internazionale della stessa capitale, portano il suo nome. Ibrahim Rugova, diventato primo presidente del Kosovo con l’indipendenza del 2008, l’ha insignito con l’ordine di “eroe del Kosovo”.
La sua immagine giganteggia in moltissime strade del Kosovo ed è raffigurata in svariati oggetti, spesso accompagnato dal moto “Bac u kry!” (“è fatta fratello”), che simboleggia l’ottenuta indipendenza.
L’agenzia jugoslava ufficiale dell’epoca, Tanjug, diffuse la nota dell’avvenuta uccisione di Jashari con un trionfale “abbiamo distrutto l’anima della guerriglia albanese”. Non sapevano, al tempo nessuno sapeva, che avevano ucciso l’uomo e creato il mito, un mito che avrebbe portato, nelle settimane successive alla sua morte, migliaia di giovani albanesi ad arruolarsi nell’UÇK. E che per paradosso la sua morte l’avrebbe preservato, intonso, dalla fine ingloriosa di molti dei suoi compagni di un tempo: considerati eroi negli anni della lotta, tacciati, oggi, d’essere dei corrotti e dei collusi, dopo aver occupato per vent’anni i principali posti di potere del Kosovo indipendente.