Erano le idi di marzo dell’anno duemiladieci quando, un po’ per scherzo e un po’ per vanagloria, nasceva East Journal. Era il periodo in cui le piattaforme di personal publishing stavano prendendo piede e fu un fiorire di voci libere, tutti a improvvisarsi Chatwin, sognarsi Terzani, tentarsi Capa o Mc Curry, immaginarsi Nabokov. Fiato alle trombe, e ai tromboni. Come me.
Non che mancassero grandi ideali, la volontà di fare informazione in modo diverso, più approfondito, con competenza, ribellandosi a un sistema che vedeva (ma dieci anni dopo non è cambiato niente) i giovani giornalisti pagati cinque euro ad articolo con la scusa della gavetta. Ero ancora praticante quando aprii East Journal, e cercai altri come me. Fu così che cominciò. Soldi non ne avevo e – da bravo figlio della classe operaia – nemmeno sapevo come farne. Ero in buona compagnia: belle speranze e nessuna concretezza. Siamo rimasti poveri. Ma siamo rimasti qui.
Dire cosa sono stati questi dieci anni per me è impossibile. Sono diventato giornalista, mi sono trovato a non avere i soldi per il pane, ho abitato tuguri, ho sognato futuri, mi sono sposato, sono emigrato e sono tornato con le pive nel sacco, ho cambiato lavoro, città, orizzonti, mi hanno detto che ero malato, mi hanno detto che ero guarito, ho seppellito mio padre, è nato mio figlio. In ognuno di questi momenti c’era East Journal. Mi ha tenuto la testa accesa nei pomeriggi dei curriculum vitae, mi ha consolato dopo il tempo perso nelle cover letters, è stato abituale presenza quando tutto perdeva i suoi contorni. È stato soprattutto persone da cui ho imparato tutto, anche a fare il “direttore”. Che non ci sono tagliato, non conosco direzioni, non ho mai saputo tracciare una rotta. So che East Journal è stato un pezzo di vita non solo per me, e questa è la cosa che più dà senso a tutti gli sforzi fatti per portarlo avanti. Ma sono passati dieci anni e non so dove siamo. Ragazzi, dove siamo?
So quello che c’è stato. Prima, un digerire i Balcani – e quanto li abbiamo masticati prima di sputare ogni residuo orientalista, ogni romanticheria da panettiere, ogni stereotipo. E quanto devo ringraziare i miei cari Alfredo, Davide, Giorgio e Filip per questo. Poi sono arrivate le grandi proteste, in Romania, in Bulgaria, fino a Gezi Park – e lì abbiamo cominciato a capire che sostenere una parte, quella dei giovani, che sentivamo vicini, non era però informare. Ci siamo guardati in faccia, io e Carlo, e abbiamo capito che quella era fare militanza, che le cose non sono mai bianche o nere. Così quando è esplosa Maidan, quando a Kiev è andata in scena la Rivoluzione ucraina, abbiamo imparato l’importanza di essere terzi rispetto alle posizioni in campo e rispetto ai media di parte. Né con Kiev, né con Mosca. E infatti ci hanno insultato tutti, ricorderanno bene Pietro, Oleksiy, Claudia, ma consoliamoci: diceva Michail Bulgakov che l’insulto è la ricompensa abituale di un lavoro ben fatto.
So anche che c’era una festa, quella sì. Il decennale. Era quasi tutto pronto, a Bergamo, per un grande evento. Ma è arrivata l’epidemia ed è saltato tutto. E davvero non c’è niente da festeggiare in questo decimo compleanno. Gli animi di tutti sono gravati da un’attesa. Molti di noi – come voi che ci leggete – vivono nelle regioni più colpite, hanno timori per i famigliari anziani, e conoscono il suono delle ambulanze che riecheggia lungo le strade vuote. Come per tutti, è il momento di andare avanti. Con sobrietà e buon senso.
Ci sono stati e ci sono i lettori, sempre di più. Che ci hanno aiutato e sostenuto. Persino questo sito è stato interamente ripagato con le donazioni dei lettori. Non è una cosa da poco. A voi lettori va certo imputata la colpa più grande: averci dato motivo di andare avanti malgrado le difficoltà. Anche voi sareste stati invitati alla festa per i dieci anni, e speriamo davvero di poterlo fare la prossima volta.
Quando tutto questo sarà finito ci troveremo come le star. E decideremo che fare. Perché dieci anni sono molti per un progetto senza soldi e senza certezze. Da qualche mese avevamo avviato un faticoso rinnovamento, puntando su giovani e motivati collaboratori. Doveva essere una nuova fase, ma si è bruscamente interrotta. Ora ci troviamo a metà del guado, e rischiamo di non uscirne. East Journal è appeso al debole filo della buona volontà, della comprensione reciproca, dell’impegno individuale. Ma troppo spesso sono i personalismi a farla da padrone, ognuno lamentando offese, rivendicando diritti, puntando i piedi.
No, non c’è molto da festeggiare oggi, ma le idi di marzo non sono un giorno di festa. Oggi bisogna prendersi le proprie responsabilità, anche dentro East Journal. Prendersi il progetto sulle spalle. Oppure non ci sarà per noi un’altra primavera.