Si sono moltiplicati, in queste settimane e in questi giorni, gli sforzi di Ratko Mladic e del suo collegio difensivo per ritardare l’emissione della sentenza definitiva sui crimini da lui commessi negli anni del conflitto in Bosnia Erzegovina, primo tra tutti il massacro di Srebrenica: il genocidio di Srebrenica, anzi, tanto per chiamare le cose con il proprio nome.
La pronuncia d’appello del tribunale delle Nazioni Unite all’Aja (Meccanismo residuale del Tribunale Penale Internazionale l’ex Jugoslavia, ICTY) è prevista, infatti, per la fine dell’anno e questo nonostante, nei giorni scorsi, lo stesso tribunale avesse accolto la richiesta dell’imputato di rinviare le udienze in aula, previste per il 17 e il 18 marzo, per ragioni di salute. Mladic, che negli anni della sua detenzione nel carcere di Scheveningen, in Olanda, ha avuto diversi guai fisici (al punto che nei giorni scorsi si era diffusa la notizia, poi smentita, della sua morte) dovrà infatti sottoporsi a un intervento chirurgico che lo costringerà a rimanere lontano dalle aule di tribunale per almeno sei settimane.
Lo stesso tribunale ha però rintuzzato un tentativo ben più insidioso portato avanti nelle settimane scorse dagli avvocati di Mladic, ovvero quello di introdurre nel dibattimento presunte nuove prove circa i fatti di Srebrenica e Sarajevo; prove che, a loro dire, avrebbero sgravato la posizione del proprio assistito. In particolar modo i legali del capo militare delle truppe serbo-bosniache avevano chiesto di includere nell’incartamento una trascrizione dell’udienza alla Camera dei Lord britannica dell’ex comandante delle forze di pace delle Nazioni Unite Michael Rose, tre documenti declassificati della task force balcanica della CIA e un messaggio crittografato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, al generale delle forze di pace dell’ONU Lars-Eric Wahlgren.
Non è ben chiaro cosa, a loro detta, questi documenti avrebbero comprovato, ma si sa che alcuni di essi si riferivano al bombardamento del mercato di Sarajevo, il Markale dell’estate del 1995: bombardamento che provocò decine di morti tra i civili sarajevesi e che, all’epoca, fu oggetto di un rimpallo surreale di responsabilità, tra chi lo attribuiva alle forze serbo-bosniache accerchianti e chi sosteneva si trattasse di un gesto autolesionistico dei bosgnacchi per attirare l’attenzione del mondo – tesi cospirazionista senza fondamento, purtroppo diffusa ancora oggi.
Il Meccanismo residuale ha respinto il 12 marzo scorso la richiesta di Mladic ma lo ha fatto senza raggiungere l’unanimità: è stata addirittura la presidente della camera d’appello, la settantenne zambiana Prisca Matimba Nyambe, a prendere le distanze dal pronunciamento del tribunale. Matimba Nyambe, giudice del tribunale dell’Aja da dieci anni, ha infatti affermato che il materiale prodotto era “pertinente, credibile e di alto valore probatorio” e che di conseguenza le richieste di Mladic avrebbero dovute essere accolte nella loro interezza.
Quello dei legali di Mladic è solo l’ultimo degli espedienti con cui, nel tempo, hanno tentato di posporre il più possibile la fine del processo, inclusa la richiesta di ricusazione di tre giudici, accusati di parzialità. Ma ora, al netto dei tempi di convalescenza e di altri possibili colpi di teatro, il giorno del verdetto finale si avvicina. Mladic ha già avuto una condanna in primo grado all’ergastolo ed è stato riconosciuto colpevole di ben dieci degli undici capi d’accusa di cui era incriminato: tra di essi, il genocidio di Srebrenica, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e il bombardamento di Sarajevo con i suoi diecimila morti. Il giudice dell’epoca, Alphons Orie, pronunciando la sentenza nel novembre 2017 affermò che “i crimini commessi [da Mladic] si collocano tra i più atroci conosciuti dall’umanità”, mentre il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Raad al-Hussein, dichiarò che “Mladic è l’incarnazione del male”.
Con ogni probabilità Rakto Mladic verrà sentenziato all’ergastolo definitivamente, a venticinque anni esatti dalla conclusione della guerra in Bosnia Erzegovina. Condividerà anche questo destino con il suo sodale, Radovan Karadzic, già definitivamente condannato a vita esattamente un anno fa. Il braccio e la mente di quella carneficina finalmente messi di fronte alle proprie responsabilità e, soprattutto, alla condanna della storia.
Ci saranno infinite polemiche, c’è da giurarci, al pari di quelle che seguirono il dibattimento Karadzic. Ciononostante, questo processo era ed è necessario non solo per fare doverosamente giustizia, ma anche perché esso costituisce la condizione necessaria affinché un processo di riconciliazione possa finalmente avviarsi, sulla base di fatti storici accertati.
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