Dana Grigorcea
Una istintiva innocenza
traduzione dal tedesco di Daria Biagi
Nuova Editrice Berti, Parma 2019
Ed. orig. 2015
pp. 219, euro 18.00
Non tutti gli autori lo fanno, ma per alcuni è quasi naturale condurre i lettori nella propria città, nel sentiero di campagna dell’infanzia o lungo le coste percorse in gioventù come se si trattasse di luoghi noti e condivisi.
Dana Grigorcea ci prova senza esitazioni, porta in giro per Bucarest i lettori in un cammino che è soprattutto mnemonico e sentimentale mostrandone la sua veste contemporanea, anche se ricca di anfratti e passaggi verso una dimensione passata plurima e sovraccarica di simboli. Nomina piazze e vie, si muove tra Piazza degli Eroi, Piazza della Vittoria e Via dell’Università come se dialogasse con un vicino o un ex compagno di scuola, lasciando gli eventuali approfondimenti topografici alla buona volontà dei singoli.
La protagonista del romanzo, Victoria, alter ego letteraria dell’autrice, torna nella città natale dopo un periodo di lavoro a Zurigo, dove Grigorcea vive effettivamente da tempo, avendo ormai assimilato perfettamente il tedesco, lingua in cui scrive regolarmene. Fa ritorno a casa da privilegiata, lavora in una banca prestigiosa, ha un fidanzato brillante e la sua famiglia ha goduto delle riappropriazioni dei beni confiscati ai tempi del regime comunista. In ferie forzate per i postumi di una rapina cui ha assistito, si riappropria gradualmente dei ricordi della propria infanzia, delle emozioni dei primi amori, di sapori, volti, strade, mezzi pubblici. Si sposta nel centro storico, si avventura nelle periferie e nei ristoranti, dove ritrova sensazioni così come persone note o meno note in flusso più vicino a quello dei pensieri che alla ricostruzione sistematica.
Il girovagare di Victoria non è però solo il tipico calarsi nel mondo di un tempo che accompagna gli espatriati di ogni latitudine quando fanno ritorno a casa, ma – si intuisce fin dalle prime righe – è qualcosa di più e di diverso. È innanzitutto un viaggio a ritroso nelle proprie vicende familiari come specchio riverberante della storia della Romania. Storia unica in cui non esiste un solo passato, ma almeno due, che si distinguono nettamente in “prima” e “prima prima”. Il “prima” è il periodo del regime, l’epoca della scuola e dei pionieri, della presenza invasiva e pervasiva dei coniugi Ceaușescu, delle condizioni esistenziali precarie temperate da relazioni umane più spontanee e concilianti. Il “prima prima” è l’epoca di Mémé, la nonna di Victoria, e della Romania prebellica, certo non facile né lineare, ma illuminata dalla dolcezza delle memorie familiari che tendono a mostrare il gradevole, occultando le contraddizioni sociali e i dolori personali.
Non c’è gerarchia tra le epoche narrate, non c’è rivalità tra la Romania perduta e poi ritrovata e la Svizzera, non c’è nostalgia, piuttosto nostalgie di momenti, persone, risate e ingenuità. La scrittura di Grigorcea scorre lieve nelle pieghe di un passato difficile, ma non irreversibile, privilegiando la dimensione individuale, quale unica chiave di lettura della realtà. Il libro si dipana così in flusso ininterrotto come l’esistenza, in cui spiccano descrizioni accattivanti di episodi tragici o divertenti, di personaggi curiosi o dolenti.
Si raccomanda, fra tutte, la narrazione gustosa del tipico cenone di Natale secondo i ricordi della madre di Victoria, non solo catalogo imperdibile delle più succulente specialità romene, ma anche riprova che l’abbondanza di cibo buono e raffinato rappresenta una delle forme di consolazione collettiva più diffuse, in qualunque paese ci si trovi e in qualunque tempo si viva.