I Balcani vassalli d’Europa, dalla caduta del Muro ad oggi

Il Muro caduto sulla testa

Trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino aprendo una stagione di entusiasmo e speranza nei paesi dell’Europa centro-orientale. Ma il velluto di Praga, Varsavia e Budapest prese ben presto una piega violenta nelle periferie del mondo socialista, rivelando quello che Jaques Rupnik ha chiamato il “lato oscuro” del 1989. La fine della Guerra Fredda portò a una svalutazione strategica della Jugoslavia aprendo le porte a politici locali senza scrupoli, capaci di cavalcare l’ondata di nazionalismo allora traboccante, conquistando il potere grazie anche al disinteresse dell’Europa, tutta concentrata a gestire il crollo del comunismo, la riunificazione tedesca e il collasso dell’Urss.

Fu così che il Muro crollò letteralmente sulla testa di una Jugoslavia già stremata. La guerra, lo abbiamo detto tante volte, non era inevitabile ma come tale apparve alle cancellerie europee le quali intervennero nel conflitto sostenendo questa o quella parte, mosse dal desiderio di ampliare (o difendere) la propria sfera d’influenza in una regione che andava rapidamente modificandosi dopo la fine della cattività socialista. E lo fecero proprio mentre erano impegnate a costruire l’Unione Europea. Un paradosso che lascia intravedere le fragili fondamenta del progetto europeista.

Ma l’Unione Europea nei primi anni Novanta era una mera espressione geografica, ognuno coltivava i propri interessi. Fu così che si giunse al riconoscimento dell’indipendenza di Lubiana e Zagabria, dovuto più a piaggeria politica che non a una reale convinzione, mentre sarebbe stato necessario (e possibile) congelare il conflitto fin dal 1991. Sarebbe però occorsa un’unità di vedute e intenti. Che non c’erano. E non ci sono mai state.

L’Ottantanove mancato

L’inconsistenza dell’Europa e dell’Occidente non ha però fatto altro che favorire un processo tutto endogeno. I primi responsabili del conflitto furono i leader politici (post) jugoslavi ed i loro volenterosi adepti e numerosi simpatizzanti. I vari Milosevic, Tudjman, Izetbegovic incarnarono lo spirito del tempo a loro vantaggio, strumentalizzando l’ondata nazionalistica che – con la caduta del Muro – stava dilagando in Europa. Proprio così, poiché se a Washington vedevano nella caduta del Muro la vittoria della democrazia liberale e del sistema capitalistico, a Varsavia e dintorni si celebrava la rinascita della nazione che, pur oppressa, ha tenacemente resistito all’annichilimento sovietico. Il grande malinteso tra est e ovest su cosa dovrebbe essere l’Unione Europea nasce proprio in quegli anni.

In Jugoslavia c’era anche chi si oppose. Durante il XIV congresso della Lega dei Comunisti Jugoslavi del gennaio 1990, quello della rottura tra la sezione slovena e quella serba che fu anticamera della dissoluzione, qualcuno provò a proporre non già una divisione su base nazionale, ma sulla base di correnti politiche transnazionali. Ma lo spirito del tempo era un’altro: la mozione fu bocciata con soli 58 voti a favore e più di mille contrari. La via del disastro morale e materiale era stata così imboccata.

Da allora la regione ha assistito a cinque conflitti militari, mentre la Repubblica federale di Jugoslavia guidata da Milosevic è rimasta sotto sanzioni internazionali per quasi un decennio, dal 1992 al 1999. Tutto questo fu accompagnato dall’incontrollata transizione dal socialismo all’economia di mercato. Una transizione che, avviata in Jugoslavia già nel 1988-1989, ha visto l’emergere di attori criminali spesso legati a doppio filo con la politica.

Il paradosso del nazionalismo

La fine delle guerre jugoslave ha visto l’emergere di piccole nazioni prive di una reale efficacia politica ed economica, con un settore industriale devastato e un’economia a pezzi, in preda a floridi mercati neri e istituzioni statali estremamente deboli. Inoltre le dinamiche in atto giocavano contro le piccole patrie, favorendo l’aggregazione e l’emergere di nuovi attori politico-economici sovranazionali capaci di esprimersi a livello globale. In tale contesto, l’Unione Europea era l’unica possibilità. Le speranze dei balcanici di giocare di sponda tra le grandi potenze, si rivelò subito un’illusione ottocentesca.

Così, quell’Europa che aveva mostrato tutta la sua indifferenza verso la regione, ora invitava a partecipare al club europeista. Ma certo non prima di avere compiuto le necessarie riforme. La sovranità nazionale da poco acquisita fu così gradualmente ceduta, e non c’è nulla di strano: è così che funziona l’integrazione europea. Solo che da quelle parti pensavano, in qualche modo, di poter negoziare, influenzare, contare qualcosa sul piano internazionale. Ma le piccole patrie nulla possono. Paradossalmente, la guerra e la frantumazione nazionalistica avevano reso necessario l’avvicinamento al post-nazionale europeista. Ancora più paradossalmente, le frontiere segnate col sangue sarebbero cadute una volta dentro l’UE.

Verso l’Europa

Negli anni Duemila si avviò il processo di stabilizzazione e associazione dell’Unione Europea per i Balcani occidentali. Un processo che comportò una rapida apertura dei mercati e un aumento dell’integrazione economica con l’UE. Le economie balcaniche restavano devastate, la povertà era ancora diffusa, ma i dati macro-economici registravano una crescita del Pil annuo mediamente superiore al 5%. Si trattava però di risultati dovuti dall’afflusso di capitali stranieri. L’economia reale continuava ad abitare macerie poiché nessun governo intraprese una seria ristrutturazione del sistema economico. Anzi, fu quella l’epoca dei grandi magnati, liberi di esercitare un potere oligarchico, influenzando la politica e ottenendo enormi ricchezze dalle allegre privatizzazioni delle vecchie imprese statali.

Oggi sappiamo che quel modello di crescita, basato sul cosiddetto Washington consensus, fatto a colpi di liberalizzazioni e privatizzazioni senza controllo, era insostenibile. E possiamo dirlo perché la crisi economica del 2008-2009 ha portato i nodi al pettine. La strada verso l’Europa aveva portato una crescita solo apparente, e le classi dirigenti locali si sono beate delle vacche grasse senza pensare di aggiustare la stalla.

Vassalli dell’UE

La crisi del 2008 ha colpito assai duramente i paesi balcanici proprio a causa della loro eccessiva integrazione con l’UE. Ma, a differenza dei paesi membri dell’Unione, gli stati post-jugoslavi non hanno beneficiato di sovvenzioni o trasferimenti di denaro, non potendo attingere ai fondi strutturali europei. Fondi che avrebbero certo alleviato l’impatto della crisi economica. I paesi balcanici si sono trovati nella scomoda posizione di essere del tutto penetrati dai paesi dell’UE, dalle loro regole, dai loro investimenti, dalle loro speculazioni, tuttavia subendole senza avere quelle garanzie che hanno i paesi membri. A cosa hanno portato le guerre condotte in nome della nazione? A piccole patrie del tutto soggette alle avversità dell’epoca, economicamente dominate dall’esterno, politicamente dipendenti da potenze straniere.

In media, i paesi della regione commerciano con l’UE per il 74% del volume totale degli scambi. Il settore finanziario è largamente in mano a paesi europei: tra il 75% e il 95% dei loro sistemi bancari è di proprietà tedesca, francese, austriaca o greca (Bonomi, 2018). Quasi tutti hanno adottato regimi di cambio fissi con l’euro, in alcuni casi utilizzandolo persino come valuta nazionale.

Tuttavia i paesi balcanici non hanno nessun diritto di voto in sede europea, non possono prendere parte alle decisioni che li riguardano, non ricevono trasferimenti economici – a eccezione di qualche briciola proveniente dai fondi di pre-adesione (Ipa II) – e non hanno accesso ad aiuti in caso di crisi. Questa situazione ha un nome che può apparire brutale, ma che non per forza esprime qualcosa di negativo a meno che non si siano fatte guerre in nome di un’ipotetica libertà nazionale, è il nome è vassallaggio.

Senza alternative

Le piccole grandeur balcaniche ancora oggi si nutrono di nazionalismi, ultimo rifugio delle canaglie. Sventolano bandiere, gonfiano il petto, ma nulla possono davvero. I leader locali ripetono stancamente l’usato copione e le masse, inebetite da decenni di propaganda, ancora ci credono. Così si può mandare un treno tutto imbandierato per ricordare che “il Kosovo è Serbia” e poi, nei tavoli che contano, abbassare la cresta, in quella disgraziata regione fatta di galli da combattimento e sterminati pollai.

D’altronde, alternative non ce ne sonoLa Russia, che fa tanto la voce grossa, vale appena l’11% degli investimenti in Serbia e assai meno nelle altre repubbliche. La Cina sta intorno al 10% di media. Non è abbastanza per tenere in piedi la baracca. Certo, fingere che ci sia un’alternativa è funzionale alle retoriche interne, fa comodo ai voivoda di turno anche perché gli investimenti russi o cinesi non sono condizionati dalla realizzazione di riforme politiche ed economiche. Ma non rappresentano una garanzia. I Balcani stanno ormai nella pancia d’Europa, e dell’Europa devono subire tutti i movimenti intestinali. Come, ad esempio, il recente rinvio dei negoziati per l’adesione di Albania e Macedonia del Nord voluto dal presidente francese Macron. 

La sfiducia nell’UE

Ecco perché il modello UE non riscuote più molto successo ed è visto da larga parte della popolazione come una parte del problema, piuttosto che una soluzione. Un malessere e un disincanto che vengono strumentalizzati da politici senza scrupoli, agitatori nazionalisti o populisti, che vagheggiano sovranità nazionali pur sapendole ormai impossibili.

A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, i Balcani restano un nodo irrisolto, una regione povera, marginale ed emarginata, paesi vassalli di un’Europa a sua volta incerta e precaria, incapace di indirizzare la regione verso un qualsivoglia orizzonte di sviluppo. Alcuni analisti dicono che i Balcani raggiungeranno un livello di benessere simile a quello europeo solo nel 2030. Questo significa che almeno una generazione sarà cresciuta in un contesto di relativa povertà economica. E la povertà economica è spesso accompagnata da depauperamento civile, politico e morale. Nuovi muri sono cresciuti nella testa della gente, a Belgrado come a Zagabria.

Il prezzo del nazionalismo

Questo è il prezzo del nazionalismo nel secolo Ventunesimo. Si creano nuovi stati, si rivendicano confini e identità, e ci si risveglia nani da giardino nel grande gioco internazionale (e dovrebbero ricordarselo i catalani, gli scozzesi, i padani…). Una volta c’era la Jugoslavia, che pensarla oggi forse sarebbe un paese già membro dell’UE, di quelli che contano qualcosa, che possono influenzare le decisioni comunitarie, risparmiato dalla guerra e dalla devastazione. E forse l’Europa sarebbe diversa, libera da quella malattia latente del nazionalismo che nei Balcani è esplosa endemica. Ma è fantasia. Inutile piangere sul latte versato. Quindi ciao Balcani, buon anno nuovo, che l’asino si attacca dove vuole il padrone.

(Photo ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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