La patata (o il testicolo?) della Rivoluzione
Piazza della Rivoluzione si trova al centro di Bucarest. Chi scrive l’ha attraversata quotidianamente mesi e mesi, per recarsi alla francesizzante biblioteca universitaria dedicata a Carlo I, il primo sovrano di questo disgraziato, ma meraviglioso, paese. Nel centro della piazza si erge un insolito monumento, che severamente troneggia sugli skaters che si dilettano a saltare sulle panchine circostanti; una sorta di obelisco trafigge una non meglio identificato oggetto ovale, per alcuni un’oliva, per altri una patata. Dal peculiare ovaloide, una vernice rossastra sgorga sul bordo dell’obelisco. I goliardici abitanti della capitale hanno apostrofato l’opera nei modi più pittoreschi: la patata impalata, il tubo e il testicolo, l’oliva nello stuzzicadenti, circoncisione fallita, la patata della rivoluzione, un cervello su un bastone.
Il monumento tanto sbeffeggiato, in realtà, commemora l’evento più drammatico della storia romena recente, la rivoluzione del 1989. Non a caso, è stato posto proprio di fronte all’ex sede del comitato centrale del partito comunista (oggi il ministero degli interni), proprio dove scoppiarono i disordini che portarono alla fuga dei coniugi Ceausescu e, successivamente, alla loro condanna a morte.
Possibile che un momento così drammatico e, da un certo punto di vista, epico, debba essere ricordato da un tubo e da un testicolo? Possibile che in trent’anni nessuno sia stato in grado di produrre qualcosa migliore della “patata impalata”?
Il monumento, tuttavia, rappresenta al meglio quella che è oggi la Rivoluzione nella memoria dei romeni: un’entità amorfa, interpretabile, sulla quale ognuno può dire la sua, per alcuni una patata, per altri un testicolo.
La grande domanda è sempre la stessa, ancora oggi, la stessa che ha dato il titolo ad un film dal discreto successo anche ad ovest: c’è stata o non c’è stata una rivoluzione (a fost sau n-a fost)? Fu una rivolta popolare, o fu un colpo di stato?
Fu una Rivoluzione o un colpo di Stato?
Chi scrive queste righe ha cercato in anni di frequentazioni della Romania e dei romeni di dare una risposta a questa domanda; grandi eroi rivoluzionari si sono rivelati agenti della Securitate, insospettabili democratici nascondevano scheletri nel loro personale armadio della vergogna. In Romania, niente è come sembra, nessuno è quel che sembra. Le inchieste si sono susseguite, molte sono ancora in corso, ma quelle giornate di dicembre restano nebulose, ambigue. Chi ha dato ordine di continuare a sparare sulla folla dopo la fuga di Ceausescu? Chi ha davvero ordinato la sua esecuzione? Quanti sovietici arrivarono a Bucarest prima che la situazione degenerasse?
Fiumi e fiumi di inchiostro sono stati scritti su quel dicembre 1989; storie, analisi, congetture. Ion Iliescu, nel 1989 eroe rivoluzionario, è oggi accusato di crimini contro l’umanità per i fatti di quelle giornate: da patata a testicolo, come il monumento.
Secondo la procura militare che sta indagando sugli avvenimenti, Iliescu e le alte gerarchie militari avrebbero messo in atto una spaventosa opera di diversione e inganno, inventando la presenza di fedelissimi del vecchio Conducator, i famigerati “terroristi”, pronti a riportare lo status quo e a catturare i rivoluzionari. Con il pretesto di neutralizzare i terroristi, si continuò a sparare per le strade, in modo indiscriminato, uccidendo giovani innocenti che erano scesi in piazza per invocare un futuro migliore.
In realtà, i terroristi non esistevano, e quando ancora a Bucarest si sparava nel mucchio, Ceausescu e sua moglie erano già nelle mani dell’esercito, abbandonati sia dai militari, sia dalla Securitate. A Bucarest si sparava per difendersi da un dittatore ormai in arresto e da suoi inesistenti difensori. Ma il caos e le morti erano quello che serviva a Iliescu per ottenere la patente di rivoluzionario, di eroe, di dissidente finalmente vittorioso, per non passare alla storia come semplice golpista, per ottenere futuro credito politico.
Una Rivoluzione al condizionale
Nessuna condanna definitiva è stata ancora pronunciata, e pertanto ogni ricostruzione deve essere accompagnata dal condizionale. In Romania c’è ancora chi crede fermamente nell’esistenza dei terroristi fedeli a Ceausescu, e fino a una sentenza contraria, la loro idea vale quanto quella di chi sostiene la colpevolezza di Iliescu.
Solo un dato è avulso dalle opposte dialettiche: le migliaia di morti innocenti. E allora, forse, è nel ricordo di quei visi, di quei giovani corpi, che va cercato il monumento della rivoluzione, quello che Pierre Nora definirebbe “il luogo della memoria”.
La memoria dei morti senza motivo
Il cuore pulsante del ricordo rivoluzionario non è nella patata impalata; lo si trova lontano dal centro di Bucarest, dalle luci sfavillanti e dalle targhe. Esso giace nel piccolo cimitero dedicato ai “martiri della rivoluzione”, il vero grande monumento commemorativo del dicembre ’89. Lì, tra i sepolcri marmorei e anziane signore che sostituiscono fiori freschi a quelli appassiti, si coglie il dramma dell’evento, la tragedia di giovani morti senza un apparente motivo. Ragazzi come Mihai Gîtlan, ucciso da un proiettile che gli ha trafitto il petto, trascinato morente per i capelli e abbandonato sotto un albero nel centro di Bucarest. Oggi quell’albero non esiste più. O Alexandra Diana Donea, uccisa il 21 dicembre a piazza dell’Università, vittima degli spari incrociati. Il padre ha ritrovato il cadavere una settimana dopo. Alexandra e Mihai, e come loro tanti altri, vittime di un carnefice ignoto, gioventù perduta di una Romania rivoluzionaria e, forse, democratica.
A trent’anni da quei giorni, la commemorazione è dedicata a loro.
Questo articolo è frutto della collaborazione tra East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso
Foto: Observator