La democrazia è in declino nel Caucaso? La “rivoluzione di velluto” dell’anno scorso in Armenia, che aveva portato alle dimissioni del Primo ministro ed ex presidente Serzh Sargsyan e all’elezione del leader delle proteste Nikol Pashinyan, era stata salutata come un successo della società civile e della democrazia. Un anno dopo, però, iniziano a intravedersi le prime crepe. Un po’ come sta succedendo nella vicina Georgia, da quest’estate in tumulto per proteste contro il governo del Sogno Georgiano. In entrambi i paesi, i governi sembrano voler minare il sistema democratico, un obiettivo che si riflette in particolare nelle riforme dei sistemi giudiziari dei due Paesi del Caucaso.
Armenia: pensione anticipata per i giudici scomodi
La settimana scorsa, il parlamento armeno ha approvato una legge che introduce la possibilità per i giudici della Corte Costituzionale di pensionarsi in anticipo. Una manovra aspramente criticata dai partiti di opposizione Armenia Prospera e Armenia Luminosa, che la considerano non soltanto uno spreco di soldi pubblici, ma soprattutto una manovra per costringere al pensionamento anticipato i giudici più vicini alla precedente amministrazione in modo da nominarne di nuovi favorevoli al governo.
In particolare, Il mio passo, il partito di Pashinyan, vorrebbe le dimissioni del presidente della Corte Costituzionale Hrayr Tovmasyan, vicino a Sargsyan e all’ex presidente Robert Kocharyan. I tre sono tutti indagati, con motivazioni che i loro sostenitori ritengono politicamente motivate. Tovmasyan è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici; il parlamento ha già votato per rimuoverlo dall’incarico, ma la decisione finale spetta agli altri membri della Corte Costituzionale entro fine anno. Stessa accusa anche per Sargsyan, mentre Kocharyan è sotto processo per aver autorizzato la repressione violenta di proteste nel marzo 2008, che causò 10 vittime. In seguito alle proteste, Pashinyan, allora leader dei manifestanti, aveva trascorso due anni in prigione.
Quando Kocharyan è stato scarcerato su cauzione nel maggio scorso, Pashinyan aveva invitato i cittadini armeni a bloccare gli ingressi dei tribunali del paese, un primo segno delle ingerenze dell’esecutivo nel sistema giudiziario. Da allora Kocharyan è stato nuovamente arrestato, anche se la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’arresto incostituzionale, mentre Pashinyan continua a sostenere che una riforma radicale del sistema giudiziario sia la “seconda fase della rivoluzione” armena, dopo le manifestazioni del 2018.
Georgia: il Sogno Georgiano rinnova la Corte Suprema
Anche nella vicina Georgia la questione dell’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo è alquanto spinosa: il 12 dicembre il Parlamento ha approvato la controversa lista di nomine per la Corte Suprema proposta dal governo, in una seduta turbolenta durante la quale si è persino assistito al lancio di una bomba puzzolente nel parlamento, apparentemente un’azione di protesta del gruppo antigovernativo Per la libertà.
La riforma costituzionale del 2017 ha aumentato il numero di giudici della Corte Suprema georgiana, lasciando al partito di governo, il Sogno Georgiano, il compito di nominare 20 giudici in carica a vita. Un solo governo avrebbe così l’opportunità di influenzare l’organo giudiziario principale del paese per decenni, situazione criticata non solo dall’OSCE e dal Consiglio d’Europa, ma anche da membri del Parlamento e dell’Alto Consiglio della Giustizia georgiani. L’approvazione della lista dopo mesi di polemiche è quindi l’ennesima indicazione della volontà del Sogno Georgiano di concentrare il potere nelle proprie mani, senza curarsi dell’opinione pubblica, come del resto era già successo con la decisione di bloccare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale.
Per ora sia Georgia che Armenia sono ben lontane dall’essere regimi autocratici come il vicino Azerbaigian; tuttavia, la lenta erosione delle istituzioni democratiche è un processo da monitorare prima che diventi irreversibile. I governi post-transizione nei due paesi continuano a voler accaparrarsi tutte le istituzioni, secondo uno schema di autoritarismo competitivo da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
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