In un freddo 6 dicembre del 1942, nel villaggio di Bosanski Petrovac, nella parte nord-occidentale della Bosnia, nasceva il Fronte antifascista delle donne jugoslave (Antifašistička fronta žena) alla presenza di 166 delegate (escluse le macedoni, troppo lontane) e con tanto di saluto augurale dello stesso Tito. L’obiettivo era ambizioso: doveva coniugare l’emancipazione femminile con la partecipazione alla guerra ed al tempo stesso con l’erigenda ideologia socialista.
Da un lato – a parte i problemi di una guerra durissima che era appena al suo secondo anno – il compito era sociologicamente ardito vista la posizione della donna nella società jugoslava di allora: una società povera, contadina, patriarcale, assolutamente conservatrice, dove i ruoli tradizionalmente assegnati alle donne erano quelli di moglie, madre e casalinga. Non avevano diritti politici e costituivano meno di un quinto (pur sottopagate) della popolazione occupata.
Dall’altro però non si partiva da zero, dato che vi era una precedente organizzazione (l’Alleanza dei movimenti femminili) che aveva sia una dimensione “civile-borghese” sia una più lavorativa, quest’ultima supportata dal partito comunista, peraltro illegale. Sarà quest’ultima componente a cogliere negli eventi bellici che rovesciavano l’immobile ed arcaica società jugoslava la chiave per chiedere di rivedere, da subito, la sua antica subalternità.
Dal punto di vista bellico le donne ci furono, come dicono i numeri: 200 mila parteciparono ai combattimenti, 25 mila trovarono la morte e 40 mila rimasero ferite o invalide; duemila di loro divennero ufficiali del nascente esercito popolare titoista. Ma il dopoguerra si presentò ambiguo: da un lato poterono finalmente votare, ma dall’altro il Fronte femminile fu abolito nel 1953 per confluire “diluendosi” nella Lega socialista del popolo lavoratore, incaricato dell’emancipazione politica e culturale intesa però lato sensu. Inoltre gli anni cinquanta videro – al di là della retorica ufficiale – un mercato del lavoro femminile con salari più bassi ed una cultura che, in nome della “maternità prima di tutto”, tendeva sempre a vedere la donna nel ruolo di madre a tempo pieno. Non mancarono delusioni e proteste, dato che – si disse – gli uomini hanno il partito per dibattere e le kafane per chiacchierare mentre le donne si isolavano in casa.
Di fatto i maggiori cambiamenti si ebbero soprattutto a partire dagli anni settanta, con il declino della visione culturale contadina e l’inserimento sempre più vasto delle giovani nei processi di scolarizzazione. Fu però una modernizzazione ambigua ed incompleta. Da un lato per molte donne, nonostante la pompa dell’8 marzo come Dan Žena, le paghe rimasero più basse di quelle maschili e così i livelli lavorativi. Dall’altro, secondo lo studioso Andrea Jovanović (Antifascist Front of Women within the socialist transformation of society), rimasero irrisolti nella società socialista jugoslava i nodi del rapporto tra classe e donne, della cultura patriarcale-maschilista e della famiglia nucleare con il suo permanere del lavoro domestico naturaliter femminile.
Gli anni novanta ormai post-jugoslavi mostrarono quanta fragilità dividessero “gli ideali e la realtà” dell’emancipazione femminile “attraverso” il socialismo in salsa autogestionaria. La regressione fu evidente in almeno due aspetti: da un lato la cultura musicale del cosiddetto turbofolk, che propose una figura di donna come lascivo oggetto di consumo o per il consumo. Osserva Ivana Kronja, una studiosa croata di media che sull’argomento ha scritto un libro (Lo splendore letale), che alla fine degli anni novanta il turbofolk scivola nel manierismo, nell’erotismo banale, nell’amoralità più spoglia, nei testi come nelle posture delle cantanti. E regina (di successo) di tale filone musicale è proprio una donna, Ceca, prorompente star nonché vedova dell’altrettanto noto Arkan.
Il secondo aspetto dove la realtà (delle donne) rinnegò in toto le elaborazioni e le prassi bene o male emancipatorie fu quello degli stupri di guerra come trionfo violento di quel maschilismo che l’ideologia ufficiale aveva solo occultato con il colore rosso. Per quelle 20-50 mila (qui i numeri dicono quel che possono) bosgnacche o kosovare violentate l’emancipazione che la storia vuole fare iniziare proprio 67 anni fa si mostrò solo una parola senza senso se non beffarda.