La prima parte dell’approfondimento sul cinema romeno degli anni ’90 è disponibile qui.
L’immagine della Romania della transizione è quella di un’umanità deragliata, traumatizzata da un quarantennio di regime totalitario e da una rivoluzione violenta e ambigua; una società piena di complessi, in cui i problemi più che appianarsi si sono acutizzati. Questa realtà convulsa viene sublimata dai registi degli anni Novanta tramite i mezzi del grottesco e dell’umorismo nero. Il riso diventa l’unico modo per ingoiare l’amara pillola del passato.
I residui della storia
Per questa opzione estetica e per la scelta di rappresentare il periferico, il marginale, il brutto in tutte le sue forme, senza filtri e quasi fino al parossismo, il cinema realista romeno è stato definito “miserabilista”, etichetta condivisa con la coeva letteratura. I germi di questa tendenza erano ben presenti anche nel decennio precedente: la rivoluzione produce un fenomeno di liberazione generale che fa esplodere quanto prima poteva essere detto solo sommessamente, a lato della narrazione ufficiale. L’apertura a scene di violenza estrema e di sesso, a linguaggi non censurati degli strati più bassi della società, è il frutto del contesto sociale, come della volontà di “dire tutto”. Si lasciano da parte i grandi eventi della Storia, per raccontare invece come l’immaginario patisce questi eventi. Mettendo in scena i microcosmi prima ignorati, il sordido e le frustrazioni, il tentativo non è più solo di ricordare oggettivamente, ma di affrontare attivamente il passato e le sue ripercussioni presenti.
Prima che intercorra il tempo necessario alla visione distaccata della narrazione storica, è la memoria, non lineare, frammentaria, spesso contraddittoria, che si prende carico di raccontare questo vissuto ancora troppo prossimo al trauma.
Il diavolo si nasconde nei dettagli
Alcuni elementi ricorrenti, alcuni episodi marginali possono dire molto su questo immaginario post-comunista, post-rivoluzionario o post-traumatico che sia, è qui che si annidano i fantasmi e i mali della società.
Matrice di molte immagini future è la rivoluzione stessa. Passata alla storia come la più violenta dell’89, è stata anche la più filmata: presente e memoria, tempo vissuto e tempo narrato si intrecciano in innumerevoli video ufficiali, riprese amatoriali o documentari; una sostanza incandescente che rielaborata torna in forma altra.
In una scena tra le più pregnanti di Terminus Paradis, Gili, il proprietario del bar in cui lavora Norica, la protagonista, viene fucilato con una scarica rapida e brutale contro un muro: come non sovrapporre questa immagine a quella ipermediatizzata della morte di Ceaușescu?
La violenza è onnipresente, ma particolarmente insensata sembra quella che coinvolge gli animali, il criceto di Mitica ucciso dagli agenti della Securitate, il vitello al pascolo colpito per sbaglio durante un’esercitazione militare, per rimanere solo a La bilancia, sono simboli dell’oppressione esercitata contro una società impotente. Nella stessa categoria potrebbero rientrare anche le lumache raccolte ne Il senatore delle lumache: un intero villaggio, pronto ad obbedire, viene mobilitato per raccogliere (fuori stagione) i pochi animali striscianti, senza spina dorsale, rimasti. Una metafora di una società vulnerabile e ormai facile da sottomettere, tanto quanto le ricorrenti scene di stupro che puntellano molti di questi film.
Tutti i film citati e altri ancora condividono poi un elemento: la presenza dell’elicottero, un simbolo di controllo e repressione militare, ma anche immagine diretta della fuga del dittatore prima della cattura.
Rappresentativo della continuità tra regime e transizione è invece il bambino in Il senatore delle lumache: compare sempre di sfuggita, ma in ogni sua scena chiede del salame, solo questo, e se lo vede su un tavolo lo ruba. Dietro la risata che questo bizzarro personaggio può far nascere si nasconde tuttavia una verità inaggirabile: passato il comunismo, rimane, inscritto nel patrimonio genetico, la fame, istinto primordiale e abbruttito da anni di privazioni; un mondo diverso, eppure pervaso dai vecchi tic, dalle vecchie ossessioni.
Il represso emerge anche ad un altro livello: La bilancia inizia con Nela che guarda una videocassetta di quando era bambina. Ad un certo punto, la festa di Natale a cui partecipano il padre e altri gerarchi comunisti si trasforma in un massacro: la bambina prende una pistola e giocando uccide uno ad uno tutti i presenti. In questa immagine confluisce l’odio della protagonista verso il partito e verso un regime inumano. A specchio può essere letta la morte collettiva e insensata del finale, moderna “strage degli Innocenti”.
Oltre la rimozione o la nostalgia
Il messaggio che ci viene consegnato da questi registi è fortemente problematico: è semplicistico attribuire la colpa di tutto quello che è successo a un “sistema” troppo spesso additato a onnicomprensivo capro espiatorio. Nella cinematografia romena postcomunista si è tentato di penetrare i meccanismi del regime, capire le cause di ciò che è stato, ma anche le colpe personali, rifuggendo da facili attribuzioni, che evitino ai più di guardare a ciò che è stato e ciò che rimane. Non ci sono buoni o cattivi; l’unica via è il tentativo di cercare la verità mostrando le scelte e i conflitti, senza omissioni.
Foto:mk2films.com