di Sergio Urussov
Il 31 ottobre, ironicamente il giorno successivo alla giornata in cui in Russia si ricordano le vittime delle repressioni politiche, agenti di polizia, membri dell’unità speciale per la lotta all’estremismo “E” e dei servizi segreti (FSB) hanno perquisito la sede regionale dell’organizzazione Memorial a Perm’ e il domicilio del suo direttore, Robert Latypov. Si tratta di uno degli ultimi episodi di una campagna repressiva in corso in Russia ormai da diverso tempo contro le organizzazioni che si occupano di diritti umani e della memoria delle repressioni politiche. All’ONG e al suo direttore viene contestata la violazione dell’articolo 260 del codice penale russo che riguarda l’abbattimento illegale di alberi. Gli accusati confutano l’accusa, ritenendola un atto di intimidazione verso chi si oppone alla banalizzazione dei crimini commessi durante lo stalinismo.
In che senso disboscamento illegale?
Da circa vent’anni, la sede locale di Memorial a Perm’ organizza nella regione, posta nell’estrema parte orientale della Russia europea, delle spedizioni di ricerca volte a raccogliere materiali inerenti alla storia dei luoghi e delle persone che furono vittime delle repressioni politiche in Urss. L’ultima spedizione, organizzata nell’agosto 2019, è stata bruscamente interrotta dalle autorità locali e i suoi partecipanti, attivisti locali e volontari internazionali (oltre a russi, cinque lituani e un cittadino italiano) sono stati interrogati per due giorni da membri di diverse forze di polizia prima di potersene andare. Al momento dei fatti, i partecipanti si trovavano nei pressi del villaggio disabitato di Galjašor (300 kilometri a nord di Perm’), dove nella seconda metà degli anni ’40 furono deportati lituani, colpevoli, secondo il potere sovietico, di aver collaborato con le forze d’occupazione nazista.
A Galjašor, abbandonato sin dalla metà degli anni ’70, oggi non rimane più niente se non un monumento commemorativo costruito a posteriori e il vecchio cimitero lituano, presso il quale i volontari stavano effettuando dei lavori di pulizia e restauro. In un’intervista a Kommersant, Latypov racconta che mai in passato si erano verificati fatti del genere e che, oltretutto, a livello regionale era stato approvato in passato il riconoscimento ufficiale di Memorial come attore del processo di riabilitazione e salvaguardia della memoria delle vittime di repressioni politiche. Dopo la spedizione sono stati aperti due procedimenti penali (il primo, come detto, riguarda il presunto abbattimento illegale di alberi, il secondo, altrettanto pretestuoso, la registrazione fittizia dei volontari lituani sul territorio russo durante la spedizione a Galjašor). In attesa dell’apertura dei processi, Memorial e il suo direttore sono stati multati rispettivamente per 200.000 e 50.000 rubli e gli uffici dell’organizzazione perquisiti.
Alcuni precedenti
Non è la prima volta che la sede Memorial di Perm’ si ritrova invischiata in processi dal sapore politico. L’associazione nasce nel dicembre 1988, su iniziativa di un gruppo di attivisti, giornalisti e docenti permiani con l’obiettivo di dare una voce alle storie di destini travolti dalla macchina repressiva sovietica.
Nel 1996 la sede locale di Memorial è tra i fondatori del museo Perm-36, l’unico ex-Gulag della Federazione russa dalle cui ceneri è nato un museo-memoriale. È rimasto aperto fino al 2014, quando in seguito a minacce di chiusura, campagne diffamatorie e tagli dei finanziamenti pubblici, è passato in gestione a un’organizzazione statale che ha provveduto a epurare progressivamente dagli spazi espositivi ogni riferimento a Stalin e allo stalinismo, presentando un’immagine edulcorata dell’universo dei Gulag e della vita al suo interno. L’Ong che amministrava il museo è stata allora accusata di essere un agente straniero e sostanzialmente ha cessato di esistere, così come il festival estivo “Pilorama”, uno degli eventi faro del panorama culturale di Perm’ di quegli anni, che si teneva proprio presso Perm-36.
Anche Galjašor era già brevemente assurto alle cronache locali, e lituane, nel 2016. La costruzione di una stele commemorativa da parte di un gruppo d’iniziativa lituano aveva fatto infuriare le autorità locali. I lituani si erano quindi visti infliggere delle multe, annullate solo in seguito all’intervento del console lituano presso la Federazione Russa e del difensore civico (ombudsman) del distretto di Perm’.
La Lituania è stata anche al centro di una seconda controversia riguardante il tema della memoria. Nel 2018, la Russia ha sospeso l’emissione di visti per i cittadini lituani che partecipavano al progetto Missione Siberia (Misija Sibiras), durante i quali i partecipanti si recavano presso antichi cimiteri di deportati lituani in Siberia. Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo, ha dichiarato senza mezze misure che si trattava di un atto di rappresaglia nei confronti della decisone delle autorità lituane di rimuovere alcuni monumenti risalenti all’epoca sovietica.
È difficile parlare di Gulag
Le cause di quest’ennesimo episodio di repressione non sono però da ricercare nei rapporti tesi tra Lituania e Russia, che non sembrano da soli in grado di giustificare l’attuale dispiegamento di forze contro la sede Memorial di Perm’. Il caso specifico è invece emblematico della guerra per la memoria in corso in Russia. Parlare di Gulag, di vittime e carnefici con tutti i crismi della storiografia più rigorosa, sta diventando sempre più difficile. Si potrebbe ribattere che, dalla nascita della Russia post-sovietica in poi, sia sempre stato un tema di non facile approccio. E per diversi motivi.
In primo luogo, per via della natura stessa dell’universo concentrazionario sovietico. Secondo lo storico Aleksandr Etkind, che così scriveva in Warped Mourning: Stories of the Undead in the Land of the Unburied nel 2013,
«la natura suicida delle atrocità sovietiche rese del tutto impossibile la vendetta, e assai ardua persino la comprensione [dato che] vittime e carnefici erano mischiati tra loro nelle stesse famiglie, negli stessi gruppi etnici e nelle stesse linee genealogiche».
Ciò sottintende tutta una serie di interrogativi che rendono il processo di rinconciliazione nazionale e il lavoro di costruzione di una memoria storica condivisa, un’impresa effettivamente titanica. Cosa fare, per esempio, quando la vittima era stata, precedentemente, un aguzzino? Legalmente avrebbe diritto ad essere riabilitata, ma sotto un punto di vista morale?
Ciò permette in parte di spiegare l’atteggiamento ambiguo, a tratti incoerente, che le autorità russe hanno sempre avuto nei riguardi della questione. Anche se i crimini dello stalinismo vengono riconosciuti in quanto tali, si tende successivamente a fare un importante distinguo: essi furono un male necessario, degli “errori”, ci dicono le autorità. Meglio ricordare il periodo stalinista per l’industrializzazione e la vittoria nella Grande Guerra Patriottica, ci dicono i manuali scolastici nei quali Stalin viene descritto come un manager efficiente. L’importante, se proprio si deve parlare di repressioni, è non fare parallelismi pericolosi tra quelle passate e quelle presenti.
La linea politica che si è imposta, ormai da diversi anni, è quella di chi auspica la restaurazione di una Russia forte e trionfante. All’interno di questa visione Stalin è visto come il leader capace di riportare l’ordine dopo i disordini rivoluzionari e la cinghia di trasmissione tra la grandeur della Russia imperiale e quella della Russia attuale, di nuovo grande tra i grandi sulla scena internazionale, questo il parere dello storico Alain Blum.
Non stupiscono quindi le accuse e condanne agli storici e alle organizzazioni che mettono in luce il carattere criminale dell’universo concentrazionario sovietico. Essi vanno incontro al progetto presidenziale di riconciliazione nazionale incentrato su una visione della storia russa priva di tragedie ed eventi traumatici che potrebbero mettere in discussione l’unità del popolo e la sua “essenza messianica”.
Secondo Vitalij Kovin, dell’organizzazione Golos, per Memorial di Perm’ e il suo direttore si prospetta un futuro fin troppo noto: la faccenda può svilupparsi in due modi, o l’organizzazione verrà soffocata dal peso delle sanzioni finanziarie e cesserà di esistere oppure il suo direttore sarà imprigionato. Intanto, con una puntualità fin troppo sospetta, sembra essersi messa in moto la macchina del fango.