Lo scorso sabato sono tornati in piazza i cittadini della capitale ceca, riempiendo la splendida cornice del parco Letná con oltre duecentomila persone. Le richieste delle nuove mobilitazioni sono le stesse di qualche mese fa: le dimissioni del primo ministro Andrej Babiš, del presidente Miloš Zeman, e un cambio di passo nella politica nazionale, a difesa dell’indipendenza del sistema giudiziario e del generale funzionamento della democrazia nel paese.
La situazione
Dopo le imponenti proteste di giugno, in molti temevano una possibile battuta d’arresto nella partecipazione popolare, che invece non ha disatteso le aspettative. Il momentaneo ritiro delle accuse di frode nei confronti di Babiš sembrava poter svincolare il primo ministro dal mirino dell’opinione pubblica, ma non è andata così. L’effetto è stato contrario e agli occhi dei cechi la reale indipendenza della giustizia appare sempre più a rischio, aggravata dal cambio alla guida del ministero competente, appoggiato da Babiš, che ha visto Marie Benešová prendere il posto del dimissionario Jan Kněžínek.
La nuova mobilitazione rischia ora di aprire una nuova stagione di proteste. L’occasione del trentennale dalla Rivoluzione di velluto, che nel novembre del 1989 segnò la fine del regime comunista in Cecoslovacchia, può rappresentare nelle speranze di molti il punto da cui ripartire per una nuova ondata di manifestazioni contro il governo.
Chi è in grado di riempire la piazza?
Milion chvilek pro demokracii, letteralmente “Un milione di attimi per la democrazia”, è l’associazione studentesca capace di tali mobilitazioni. Il suo giovane leader Mikuláš Minář, è stato in grado in pochi mesi di trasformare una semplice raccolta firme contro il premier, nelle più imponenti manifestazioni di piazza che il paese mitteleuropeo ha visto dal 1989.
La richiesta di dimissioni indirizzata a Babiš tramite un ultimatum pubblico ha fatto guadagnare al movimento la definizione di non-democratico, direttamente dal presidente Zeman. Il discusso capo di stato ceco ha accusato i manifestanti di non rispettare il risultato elettorale che ha consegnato a Babiš un parlamento amico.
E i partiti? Le opposizioni giocano un ruolo solamente marginale nella mobilitazioni popolari che da mesi portano centinaia di migliaia di cechi a protestare contro il premier. Una presenza in prima fila di uno qualsiasi dei leader dell’opposizione porterebbe probabilmente la piazza a svuotarsi. E questo la dice lunga sulle potenzialità elettorali di tali mobilitazioni.
I partiti oppositori sono divisi, frammentati dentro e fuori dal parlamento, ma soprattutto sono poco credibili nei confronti dell’opinione pubblica. Babiš è prima entrato nella scena politica e ne è poi diventato il principale attore proprio a causa del fallimento dei vecchi partiti. Sia la storica formazione socialdemocratica che le varie forze di centro-destra che si sono succedute alla guida del paese prima di Babiš, hanno da tempo perso il consenso dei cittadini e fanno fatica a riconquistarlo. Non è un caso che alle scorse consultazioni europee, nonostante la perdita di voti subita dalla formazione del primo ministro, nessun partito di opposizione è riuscito a superare il 15% dei voti.
Allarme democratico o paragone insensato?
La concomitanza della protesta con i trent’anni da quel 17 novembre del 1989 ha portato i manifestanti, quanto alcuni addetti ai lavori, a forzare una narrazione intenta a paragonare la lotta per la democrazia di ieri con quella di oggi. Un parallelismo che, per quanto evocativo e pieno di superflua drammaticità, non sta assolutamente in piedi.
Trent’anni fa non solo erano differenti le condizioni storiche, politiche e sociali della vecchia Cecoslovacchia, ma era diversa la natura della protesta stessa. Non basta certo una mobilitazione spontanea, anche se capace di portare in strada un numero considerevole di persone, per far passare il messaggio che in Repubblica Ceca è a rischio il funzionamento democratico dello stato.
In una società multipartitica dove i cittadini concorrono democraticamente alla formazione del parlamento, una manifestazione di piazza così massiccia, dove i partiti giocano un ruolo praticamente marginale, può apparire interessante e attirare simpatie trasversali, ma rischia di restare sterile e di non tradursi in una scelta chiara al momento del voto. E questo non può essere ascritto a Babiš.
I cittadini cechi sono restii nel recarsi alle urne, soprattutto i più giovani, probabilmente gli stessi che erano in piazza ad accusare il governo di voler demolire l’assetto democratico. Per sconfiggere Babiš non serve una rivoluzione, basta dar vita a una proposta politica credibile, seria, che cerchi di intercettare il consenso di quelle fasce di popolazione che si fidano della narrativa del premier: “cittadini” residenti spesso nelle zone più rurali della Boemia, o nelle piccole realtà industriali della Moravia.
Fino a ora, nessuno si è dimostrato in grado di convertire il dissenso in una reale alternativa politica a Babiš. Per farlo, occorre uscire dalla “bolla” cittadina e misurarsi con i problemi reali dei nove milioni di cechi che non vivono a Praga e che, probabilmente, non percepiscono la democrazia ceca in pericolo.
Foto: AlJazeera.com