La comunità ebraica e la comunità islamica di Sarajevo hanno celebrato insieme, giovedì 7 novembre, i 200 anni dal “Purim di Saray”, affermando l’unità tra le due comunità religiose in un contesto in cui cresce l’odio a livello globale. “Musulmani ed ebrei bosniaci sono un solo corpo. In mezzo al male sempre crescente dell’antisemitismo e dell’islamofobia, stiamo rinnovando il nostro impegno a rimanere buoni vicini che si prenderanno cura gli uni degli altri come abbiamo fatto in passato”, ha affermato il gran muftì di Bosnia, Husein Kavazović.
Come tramandato nel suo libro Sarajevo Megillah dal famoso storico ebreo di Sarajevo Moše ben Rafael Attias, noto anche come Zeki Effendi, era il 1819, quando il corrotto governatore ottomano della Bosnia, Mehmed Ruzdi Pascià, fece imprigionare il rabbino Moše Danon e 11 capifamiglia della comunità ebraica, minacciando di ucciderli se gli ebrei di Sarajevo non avessero pagato un lauto riscatto. Un ebreo sarajevese, Rafael Levi, passò allora tutta la notte a girare per la città e chiedere ai notabili musulmani di fare qualcosa per fermare le esecuzioni. “Dal momento che l’avido pascià stava pianificando di eseguire i prigionieri all’alba, i cittadini di Sarajevo infuriati, circa 3000 di loro, fecero irruzione nel palazzo del pascià e liberarono i prigionieri“, come scrive Zeki Effendi. Non solo: dopo tale evento, 249 notabili musulmani di Sarajevo, capeggiati da Ahmed Bajraktar Bjelavski, scrissero una lettera al sultano Maometto II, chiedendo e ottenendo la sostituzione del corrotto pascià. Da allora, tale evento è celebrato dalla comunità sefardita come il “purim di Saray“, poiché ebbe luogo in contemporanea con la festa ebraica di Purim, che celebra la liberazione del popolo ebraico dal giogo persiano.
L’allora rabbino, Moše Danon, morì nel 1830 presso Stolac durante il viaggio di pellegrinaggio verso Gerusalemme. La sua tomba è ancora oggi custudita dalla famiglia musulmana dei Medar, e visitata da ebrei da tutto il mondo.
Mose Attias, importante membro della comunità ebraica sarajevese di fine ottocento, è stato uno studioso dell’islam e della letteratura persiana medievale, oltre che un acceso sostenitore dei legami interreligiosi. Nonostante un’iscrizione sbiadita, la sua lapide nel vecchio cimitero ebraico di Sarajevo è forse l’unica al mondo ad avere un epitaffio in caratteri latini, ebraici e arabi. In occasione del bicentenario, la cooperazione turca ne ha finanziato il restauro.
“La stessa pietra tombale è una prova del multiculturalismo di Sarajevo”, ha detto a Reuters Eli Tauber, autore e storico ebreo sarajevese. “I legami stretti tra le nostre comunità sono unici. Anche il modo in cui celebriamo il purim è senza precedenti e potrebbe servire da modello per il resto del mondo.”
Ma, come ricorda Jasmin Jusuf Jusufović, quello del 1819 non fu un semplice caso di tolleranza interreligiosa: “il purim di Saray non può essere collocato nel piano della tolleranza di oggi, poiché non è accaduto perché i musulmani di Sarajevo amavano gli ebrei nella loro diversità, ma perché li trattavano in modo uguale, e l’ingiustizia nei loro confronti non era vista in modo diverso dell’ingiustizia verso tutti gli altri.”
Gli ebrei hanno avuto un ruolo significativo nella vita culturale ed economica di Sarajevo per 450 anni. Espulsi dopo la riconquista cristiana della penisola iberica, trovarono rifugio in città, da poco occupata dall’Impero ottomano. Negli anni ’30, Sarajevo aveva otto sinagoghe al servizio di circa 12.000 fedeli – un quinto della popolazione totale. La maggior parte di loro furono deportati e uccisi durante la Shoah; meno di 1250 sopravvissero. Anche in tali anni bui, alcuni ebrei riuscirono a fuggire da Sarajevo grazie al sostegno dei loro concittadini musulmani, che li nascosero ai nazisti, come racconta la storia degli Hargada e dei Kavilio.
La comunità si riprese un po’ nel dopoguerra, ma subì un altro colpo con la guerra degli anni ’90 e l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Allora, fu la storica associazione ebraica La Benevolencija a organizzare convogli che permisero a circa 1500 musulmani bosniaci di lasciare la città. Circa 800 ebrei che vivono nella città, oggi guidati da Jakob Finci, rimangono una parte importante della sua identità multiculturale. Nel sistema etnocratico stabilito con gli accordi di Dayton, i cittadini che non si riconoscano come bosgnacchi, serbi o croati non hano accesso alle più alte cariche politiche – un sistema che la Corte europea dei diritti umani ha condannato già ormai 10 anni fa nel celebre caso Sejdic e Finci.
Foto: Reuters / Dado Ruvic