Negli ultimi giorni un nuovo scandalo ha colpito il governo di Belgrado. Questa volta a suscitare perplessità sullo stato di diritto nel paese è stata la vicenda dell’arresto di Aleksandar Obradović, esperto informatico della fabbrica di armamenti “Krušik” di Valjevo e protagonista della diffusione di documenti ufficiali riguardanti una compravendita di armi ai danni di imprese statali e a beneficio del padre del ministro degli Interni Nebojša Stefanović. Le armi in questione sono poi finite ai miliziani jihadisti in Yemen.
L’arresto di Obradović
Il 18 settembre scorso agenti della BIA, l’intelligence serba, hanno arrestato, durante l’orario di lavoro, Aleksandar Obradović. Le autorità hanno tenuto segreta la notizia per oltre tre settimane, fino alla denuncia pubblicata dal settimanale NIN il 10 ottobre. Obradović, che anche grazie al sostegno ricevuto dall’Associazione dei giornalisti serbi (UNS), dall’opposizione e dall’opinione pubblica è stato trasferito agli arresti domiciliari in attesa del processo, è accusato di “violazione del segreto commerciale”. L’indagine riguarda la diffusione sul portale ArmsWatch di documenti ufficiali relativi all’acquisto di un lotto di armi da parte dell’impresa privata serba GIM e alla successiva vendita delle armi all’azienda saudita Rinad Al Jazira e alla Larkmont Holdings LTD, società offshore registrata nelle Isole Vergini britanniche.
Come emerso già lo scorso anno dall’inchiesta del portale investigativo BIRN la vicenda presenta almeno tre aspetti problematici. Il primo riguarda il forte conflitto d’interesse della GIM dovuto alla presenza, in qualità di rappresentante, di Branko Stefanović, padre dell’attuale ministro degli Interni e vice-primo ministro Nebojša Stefanović. Proprio Stefanović padre avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra la GIM e le altre imprese coinvolte. Qui il secondo aspetto poco trasparente della storia. Secondo i documenti forniti da Obradović, la GIM avrebbe acquistato le armi dall’azienda statale Krušik di Valjevo ad un prezzo di gran lunga inferiore rispetto al loro reale valore e a quanto pagato dall’impresa statale Jugoimport SDPR, provocando così un significativo danno economico per lo stato. Infine, elemento non certo secondario, secondo quanto pubblicato da ArmsWatch le armi oggetto della compravendita sarebbero finite non al governo saudita ma, grazie ad esso, direttamente nelle mani degli jihadisti dello Stato islamico (IS) presenti in Yemen.
Le reazioni politiche
Due giorni dopo la pubblicazione della notizia sul portale ArmsWatch, il ministero del Commercio serbo aveva rilasciato una nota in cui ribadiva che nessuna esportazione era stata autorizzata verso paesi soggetti a sanzioni internazionali e che la Serbia “non può in alcun modo assumersi la responsabilità di ciò che i paesi di destinazione finale fanno con le merci”. Lo stesso giorno la Krušik negava la vendita delle armi alla GIM ad un prezzo privilegiato.
Il 18 settembre, giorno dell’arresto di Obradović, il ministro degli Interni Nebojša Stefanović aveva negato che la GIM fosse di proprietà del padre definendo la notizia “un pezzo di carta che non significa nulla”.
Pochi giorni fa il presidente Aleksandar Vučić ha bollato la questione come “un’invenzione prodotta dall’opposizione che sta conducendo una brutale campagna contro le persone al potere e che solo chi denuncia qualcosa all’organismo statale o all’ufficio del procuratore può essere considerato e lui [Obradović] non l’ha fatto”. Lo scorso 20 settembre lo stesso Vučić si era detto pronto a sollecitare “la vendita di più armi possibili” all’Arabia Saudita in quanto consentito dalla legge.
Quel che appare certo è che questa storia non finirà qua, come dichiarato dallo stesso Obradović in un’intervista dopo il suo rilascio in cui afferma di avere ancora molte cose da riferire sul tema: un’azione che compie “per rendere pubblica la verità”.
Vučić e i businessmen mediorientali
La società civile e l’opposizione serba chiedono di far luce sul caso. Il 22 ottobre la deputata dell’opposizione Marinika Tepić ha tenuto una conferenza stampa in cui ha esposto ulteriori dettagli sul coinvolgimento del governo serbo nel traffico d’armi verso i fronti di guerra del Medio Oriente. In particolare, Tepić ha mostrato le fotografie di alcuni carichi sospetti, per via delle grosse dimensioni, presso gli hangar dell’aeroporto di Belgrado contrassegnati con la dicitura “VIP”, quindi esentati da controllo, con destinazione Doha, in Qatar. La deputata ha poi chiesto a Vučić di rispondere circa il ruolo di due controversi personaggi palestinesi, mostrando le fotografie ricevute da un informatore che li ritrae insieme all’aeroporto.
Si tratta di Mohammed Dahlan e Adham Abo Madalala, che da anni vivono a Belgrado e sono diventati cittadini serbi. Mentre del secondo non si sa molto se non che è stato il primo ambasciatore palestinese in Montenegro, Mohammed Dahlan è molto più noto al pubblico. Dahlan è infatti ex capo dei servizi segreti palestinesi, rivale politico del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, nonché consigliere dei principi sauditi. Nel 2016 venne condannato in contumacia da una corte palestinese per essersi appropriato di 18 milioni di dollari di fondi pubblici. Dahlan è stato esiliato dalla Palestina nel 2011: oggi possiede passaporto montenegrino dal 2010 e serbo dal 2013, ed è stato anche fotografato insieme ai presidenti dei due paesi (quando entrambi ricoprivano la carica di primo ministro).
Tepić chiede quindi a Vučić cosa questi abbia concordato coi due palestinesi all’epoca degli scatti e quale sia il ruolo di questi controversi businessman nel traffico di armi, così come negli affari commerciali che legano la Serbia al Medio Oriente, tra cui il progetto edilizio “Belgrado sull’acqua” e l’acquisizione di Air Serbia da parte di Etihad Airways.
Il traffico di armi dalla Serbia
Che le guerre in Yemen e Siria siano diventate terreno di scontro tra grandi potenze, assumendo la forma di “guerre per procura”, è cosa nota. Quello che però risulta meno noto al grande pubblico è il punto di partenza di buona parte delle armi che alimentano quei conflitti. Tra questi, uno dei più importanti è la Serbia che tramite le imprese statali Jugoimport SDPR e Krušik, e la mediazione delle autorità statunitensi, esporta i propri armamenti in varie parti del mondo.
Il Trattato sul commercio delle armi delle Nazioni Unite, entrato in vigore nel dicembre 2014, vieta l’esportazione diretta verso paesi in cui sussistono “gravi violazioni dei diritti umani”. La norma prevede inoltre che le esportazioni siano provviste di un certificato che specifichi l’utente finale e di un documento emesso dal governo del paese importatore che garantisce che le armi non vengano riesportate verso paesi in guerra.
Per aggirare il problema le imprese serbe si affidano spesso ad intermediari statunitensi o agli stessi governi di Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo. Già nel 2016 un’indagine di BIRN denunciava che circa 50 voli carichi di armi erano partiti, nel giro di un anno, dall’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado diretti in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti. Il carico sarebbe poi stato trasferito proprio verso la Siria e lo Yemen.
Quanto pubblicato da ArmsWatch nel settembre scorso dimostra come ancora oggi ingenti quantitativi di armamenti prodotti in Serbia giungano nelle mani degli jihadisti yemeniti. A guadagnare da questi commerci illeciti è, manco a dirlo, proprio l’impresa GIM. Tra il 2015, anno in cui Branko Stefanović ha cominciato a collaborare con il presidente Goran Todorović, e il 2018 i profitti dell’azienda sono cresciuti in maniera esponenziale passando da appena 340 mila euro a circa 16 milioni di euro.
Foto presa dai canali di comunicazione dello Stato islamico e utilizzata dall’inchiesta di ArmsWatch
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