Per una dolorosa e beffarda ironia della storia, l’Hotel Tito potrebbe davvero divenire un hotel. Difficile oggi dire se proprio con questo nome così impegnativo. Perché in Hotel Tito (Sellerio 2019) la scrittrice Ivana Bodrožić racconta della fuga da Vukovar invasa dall’Armata popolare jugoslava (ma ormai serbizzata) nell’autunno del 1991 e del suo essere ospitata a lungo come sfollata a Kumrovec, nelle Zagorje, regione a nord di Zagabria e cara al grande scrittore Miroslav Krleža (che le racconta nel 1922 ne Il dio Marte croato).
E a Kumrovec, paese natale del Maresciallo, gli sfollati furono alloggiati in precarie condizioni – tre in una stanza, racconta l’autrice – nella gigantesca struttura che fu per un decennio la scuola politica della Lega dei comunisti jugoslava: ribattezzata appunto “hotel Tito”, come a Tito era stata ovviamente dedicata la scuola.
L’edificio, concepito negli anni settanta, fu aperto in grande pompa nell’81, l’anno seguente alla morte di Tito. Costruito in stile detto brutalista, la scuola mirava a formare politicamente quei “rivoluzionari di professione” (come li chiamò ironicamente Nicole Janigro) che dovevano costituire l’avanguardia ideologica della Jugoslavia socialista.
La scuola durò poco, dato che – scioltosi il partito nel gennaio del 1990 – già alla fine dell’anno diventava sede per l’addestramento del nascente esercito croato e poi luogo di accoglienza per i croati in fuga dalle aree della guerra. La politička škola fu costruita con imponenza: quattro piani, quasi seimila metri quadrati per piano, con libreria, cinema, palestra, ristorante, bar e 145 camere da letto, per soddisfare ciò che Tito aveva affermato nel 1976: “Abbiamo un gran numero di persone che sono dei buoni comunisti, ma in termini di teoria sono deboli. Le basi del marxismo devono essere conosciute”.
In effetti almeno nelle intenzioni qui, nelle dolci colline delle terre alte croate, si doveva elaborare e trasmettere il marxismo ufficiale (non quello di Praxis per intendersi) in salsa jugoslava: cioè autogestionario all’interno e non allineato all’estero. Vi passarono intellettuali come Slavoj Žižek, Žarko Puhovski, Furio Radin, Milorad Pupovac, Dušan Janjić, Milan Kučan, Kiro Gligorov, Ivica Račan; questi fu l’ultimo direttore della scuola nonché colui che all’ultimo congresso della Lega si rifiutò di proseguire i lavori dopo l’abbandono sloveno, in pratica sancendo la fine della Lega stessa.
Inoltre gli sfollati che fino al 2003 vissero nella struttura venivano perlopiù proprio da Vukovar, la città che nel 1920 vide – presente Tito – la nascita del partito comunista jugoslavo, terzo partito alle elezioni di quell’anno ma subito bandito dal governo monarchico.
Ma, come si diceva, l’ironia della storia non si ferma. Perché per 14 milioni di kune (1,9 milioni di euro) i cinesi della società immobiliare Zhongya si sono comprati la vecchia scuola ormai in spettrale abbandono (tanto da essere richiesta come location per un film del terrore: in rete le foto del degrado sono tristi quanto eloquenti) e ciò fa sperare in un rilancio “industriale” di quel turismo della memoria se non addirittura “jugonostalgico” che muove comunque 100 mila visitatori all’anno, specie il 7 maggio, giorno del compleanno del Maresciallo (sulla nuova mitopoiesi titoista, Titostalgia. A Study of Nostalgia for Josip Broz, di Mitja Velikonja).
Si può discutere se la mossa cinese sia parte di una più ampia strategia economica di conquista nei confronti del vecchio continente. Di sicuro il “turismo di Tito” si sta trasformando in una risorsa per la Croazia interna e l’idea di un “hotel Tito” a Kumrovec potrebbe uscire dal romanzo della Bodrožić e trasformarsi in profittevole realtà di business. E lo stesso nome di Tito diverrebbe un buon brand di richiamo dopo la rozza demitizzazione degli anni novanta. D’altronde non viviamo forse in un’epoca post-ideologica?