BASKE(S)T: Il Frankestein che portò la pallacanestro in Lituania

A metà degli anni ’30 la Lituania abbaiava rabbiosamente come solo i cani minuti sanno fare: circondato da tre bestie molto più grosse che, per diversi motivi, gli erano ostili, il piccolo bassotto baltico si era ormai da anni abbandonato al governo dittatoriale di un uomo dalla barba aristocratica e lo sguardo ambiguo, Antanas Smetona. Se in politica, tuttavia, anche i chihuahua possono spesso sembrare San Bernardo, su un campo di pallacanestro la trasfigurazione è più complessa; i primi a mostrare le vere dimensioni dei lituani non furono né i polacchi, né i sovietici, né i tedeschi, bensì i cugini lettoni, che nel 1935 banchettarono sulla loro testa con un severo 123-10 che poco spazio lasciava alle recriminazioni. Smacco non da poco per il vecchio Smetona, che sperava di veicolare consenso tramite lo sport come i suoi grandi modelli occidentali. “Forse dovremmo puntare su altro” dicevano a Kaunas e dintorni nel 1936. La capitale provvisoria, così i lituani chiamavano quella che oggi è per tutti la casa dello Zalgiris; si sognava Vilnius, la Gerusalemme dell’est, una delle culla della cultura ebraica europea, che i polacchi avevano annesso qualche anno prima. L’umiliazione che i lettoni avevano inflitto sotto canestro non era meno cocente di quella politica. “Forse dovremmo puntare su altro, ma prima facciamo un altro tentativo”.

Negli stessi anni a Los Angeles un marcantonio di circa due metri veniva cooptato come centro di riserva della nazionale di basket a stelle e strisce chiamata in fretta furia alle olimpiadi berlinesi del 1936. Frank Lubin giocava e lavorava allo stesso tempo; era il pivot della squadra della 20th Century Fox; sì, quella 20th Century Fox. La casa di produzione hollywodiana aveva assemblato una squadra allenata da un coach-truccatore, che dopo essersi dilettata nel basket, promuoveva i nuovi film. Chi meglio di un ragazzone di due metri con gli zigomi alti e sporgenti poteva personificare Frankestein, clamoroso successo ai botteghini del 1931. Per questo prima e dopo – c’è chi sostiene anche durante – le partite il povero Lubin veniva travestito da mostro, a scopi pubblicitari (ah, l’America!). Il ragazzone non era soltanto un discreto figurante, ma anche un ottimo conoscitore della pallacanestro, e per questo si unì alla rappresentativa americana che vinse l’oro alle olimpiadi di Berlino a seguito di una finale giocata all’aperto, sotto la pioggia. Erano altri tempi, era un altro basket. Mentre festeggiava l’alloro, Lubin venne avvicinato da due uomini che iniziarono a parlargli in lituano, lingua che il nostro in qualche modo comprendeva. Perché solo al di là dell’Atlantico il suo nome era Frank. I due uomini lo chiamavano Pranas. “Pranas non è che verresti a insegnare questo gioco anche da noi?” gli chiesero. E Pranas/Frank non se lo fece ripetere due volte; forse avrebbe potuto finalmente smetterla di travestirsi da freak durante le partite, e soprattutto sarebbe tornato nel luogo dal quale i genitori erano emigrati.

Come tanti europei dell’est, i Lubinas avevano lasciato il vecchio continente alla volte degli Stati Uniti all’inizio del nuovo secolo, e così Pranas era diventato Frank. Gli anni californiani non cancellarono però il suo sostrato baltico, che fu ben lieto di riemergere in quel lontano 1936. Arrivato a Kaunas, l’ex Frankestein venne persino ricevuto da Smetona. Gli aneddoti sull’incontro tra il cestista e il dittatore fioccano e non saremmo certo noi a guastare una bella storia con un futile dettaglio chiamato verità. Si narra che l’uomo dalla barba aristocratica e dalle aspirazioni fasciste rimase affascinato di fronte a questo omaccione di oltre due metri che parlava lituano con un fortissimo accento della southern California: “Senta Lubinas, qui la situazione è critica, i lettoni ci hanno umiliato, e io a perdere coi lettoni proprio non ci sto. Van bene tutti, ma i lettoni proprio no. Faccia come crede, ma metta su una squadra che sappia ben figurare a questo maledetto gioco, lo deve al suo sangue e alla sua nazione”. Non sappiamo quanto Lubin fosse sensibile ai richiami nazionalisti, ma è probabile che una vita passata guardando le acque del Pacifico avesse annebbiato l’orgoglio baltico. Pranas voleva giocare a pallacanestro, possibilmente vestito da persona normale e non da mostro. A onor del vero, Smetona gli diede pieni poteri, che il nostro sfruttò totalmente. Due, tre telefonate nel Midwest, a Chicago e dintorni: “Ascolta, visto che sei mezzo lituano anche tu, che ne dici di venire a giocare da queste parti? In questo remoto angolo d’Europa ci trattano da dei, ho anche parlato col presidente”.

Tra i lituano-americani che raggiunsero Kaunas c’era anche Phil Krause, o forse dovremmo chiamarlo Feliskas Kriauciunas; un passato all’università di Notre-Dame (Indiana) e un discreto talento. Alcune fonti sostengono che Kriauciunas sia arrivato addirittura prima di Lubin, nel 1935, ma in questa storia leggenda e verità sono ormai osmotiche. Feliskas fu capitano e allenatore giocatore della rappresentativa lituana ad Eurobasket 1937. Probabilmente nessuno fece mai notare ad Antanas Smetona che la lingua franca di quella squadra – campione d’Europa dopo aver battuto in finale l’Italia – non era il lituano ma l’inglese. Non sappiamo se qualcuno avesse già tradotto in lituano termini come screen, jump-shot rebound , ma è difficile credere che per amor di nazione giocatori formatisi al di là dell’oceano abbiano abbandonato le parole con cui erano cresciuti. La grande contraddizione di un uomo che voleva far grande la sua nazione attraverso la sport, e che dovette affidarsi proprio ai figli di chi quella nazione l’aveva lasciata.

Alla successiva edizione di Eurobasket del 1939 il ruolo di allenatore-giocatore toccò a Lubin, e fu un altro trionfo. La Lietuva si era ormai piazzata sulla mappa del basket continentale: un paese di un paio di milioni di anime era diventato una potenza sportiva grazie a un manipolo di emigrati di ritorno. I lituani erano i favoriti di diritto anche per l’edizione del 1941, che tuttavia non venne mai disputata. Nel 1940 l’Unione Sovietica invase le tre repubbliche baltiche, e Smetona fece il percorso inverso a quello di Lubin e Kriauciunas: si imbarcò su una nave e fuggì negli Stati Uniti. Il dittatore che si era innamorato del basket terminò i suoi giorni, ironia della sorte, a Cleveland, città che qualche decennio dopo avrebbe fatto da teatro a uno dei più grandi prodigi della storia del gioco (il nome LeBron vi dice qualcosa?). E Lubin? Dopo varie traversie riuscì a raggiungere L.A, dove riprese il suo posto nel quintetto titolare della squadra della 20th Century Fox. Non fece più ritorno nella Lituania sovietica, dove era visto ormai come un imperialista americano. Per cinquant’anni la Lituania fornirà all’Unione Sovietica campioni più o meno grandi, che trionferanno sotto l’egida della bandiera rossa e non sotto il tricolore lituano. La mitica maglia verde della Lietuva tornerà in scena soltanto nel 1992, ma quella è un’altra storia.

Foto. ozy.com

 

Chi è Francesco Magno

Ha conseguito un dottorato di ricerca in storia dell'Europa orientale presso l'università di Trento. E' attualmente assegnista di ricerca presso la medesima università. E' stato research fellow presso il New Europe College di Bucharest e professore di storia dell'Europa orientale presso l'università di Messina. Si occupa principalmente di storia del sud-est europeo, con un focus specifico su Romania, Moldavia e Bulgaria.

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