Sheikh Hassan, capo del Consiglio militare di Kobane, ha dichiarato che le forze curde hanno raggiunto un accordo con la Russia, e quindi con la Siria, che prevede l’ingresso delle truppe di al-Assad nei territori curdi non ancora occupati dall’esercito turco. L’accordo è stato siglato presso la base russa di Hmeiymin, a ribadire come sia Mosca a gestire le relazioni con al-Assad. Una soluzione obbligata dopo che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato nei giorni scorsi l’inizio di un’operazione militare nel nordest della Siria contro i curdi siriani. L’obiettivo dell’operazione, chiamata “Primavera di pace”, è creare una “zona cuscinetto” nel nordest della Siria – a est del fiume Eufrate – che allontani dal confine con la Turchia i curdi siriani, considerati un gruppo terroristico dal governo turco. L’iniziativa militare è stata resa possibile dal ritiro delle truppe americane dall’area delle operazioni.
Era tutto scritto
Con l’invasione dell’esercito turco a nord, e l’ingresso delle truppe siriane a sud, il controllo dei curdi sul territorio risulterà azzerato. L’amministrazione autonoma della Siria del nord-est, conosciuta semplicemente come Rojava, è finita per sempre. Anche qualora dovessero sopravvivere organismi istituzionali, i curdi non saranno più i padroni del territorio né potranno aspirare a qualche forma di autogoverno poiché difficilmente Mosca e Ankara, unite nella piattaforma di Astana, concederanno ai curdi – sconfitti e isolati – la possibilità di partecipare ai negoziati per il futuro della Siria.
Tutto questo era scritto.
Il ritiro americano e l’offensiva turca hanno scatenato lo sdegno dell’opinione pubblica europea. Il sonno delle coscienze si è dunque bruscamente interrotto? Oppure siamo di fronte a un risveglio tardivo, improvviso e temporaneo, che presto lascerà nuovamente spazio al sopore? La verità è che c’è ben poco da stupirsi e, tradimento americano a parte, ancora una volta i curdi settentrionali hanno palesato la loro tradizionale incapacità politica. Non hanno saputo prevedere, non hanno saputo tutelarsi attraverso una diplomazia intelligente, accorta e realista, cercando piuttosto di ottenere l’impossibile.
C’è ben poco da stupirsi della piega che hanno preso gli eventi in Siria. Era scritto che gli americani lasciassero il campo, con Trump o con un altro presidente avrebbero fatto lo stesso. Era scritto che i turchi non avrebbero mai accettato una presenza organizzata curda ai propri confini, sia per l’ovvio effetto spillover sul Kurdistan turco, sia perché per Ankara quelli dell’YPG sono terroristi quanto (o più) quelli dell’ISIS. Sapevamo tutti che il governo turco sarebbe intervenuto poiché lo aveva già fatto nel 2018 con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”. Dove sta la novità, dunque? Lo sapevano anche i curdi.
Il Rojava era un sogno impossibile
Sapevano cioè che sulla loro idea di Rojava autonomo pesava l’interesse internazionale. Un interesse che va in tutt’altra direzione, e non da oggi. Proprio come in passato – tra Sèvres e Losanna, all’indomani della Prima guerra mondiale – anche questa volta gli interessi delle grandi potenze hanno schiacciato ogni loro aspirazione. I curdi sono sacrificabili quando l’opportunità politica lo richiede. Ora e sempre. In quel quadrante non ci sarà mai spazio per uno stato curdo.
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Certo, i curdi siriani hanno legittimamente voluto tentare, ben sapendo che la via era stretta. Ma il loro federalismo mal si concilia con la ricostruzione di una Siria unita (per come viene pensata fino ad ora, almeno). E anche l’opzione opposta, quella di uno smembramento del paese in più staterelli, non avrebbe consegnato loro l’indipendenza poiché la Turchia non lo avrebbe mai consentito, né lo avrebbero fatto gli Stati Uniti o l’Europa cui non interessa giocarsi le relazioni con Ankara appoggiando un progetto ideologicamente agli antipodi rispetto all’ordinamento internazionale.
Un romanticismo mal gestito
A fronte di queste evidenze, i leader curdi hanno mancato in lungimiranza. Diversamente dai curdi iracheni, che l’autonomia l’hanno ottenuta anche grazie a un’accorta realpolitik, i curdi siriani hanno puntato tutto sull’idea ocalaniana di confederalismo democratico, sulla lotta armata, sul sacrificio estremo, con un romanticismo degno di monumentali opere letterarie, ma inutile in guerra. Peggio, i curdi hanno provato la politica dei due forni con Russia e Stati Uniti: un gioco pericoloso che gli ha fatto perdere l’ombrello russo e che gli costerà l’autonomia nella futura Siria di al-Assad.
Senza santi né eroi
L’esercito turco, da un lato, e quello siriano, dall’altro faranno la loro cinica partita, evitando scontri diretti, lasciando ai curdi il controllo delle città, ma isolandole e tagliandole fuori da ogni collegamento (esattamente come si è fatto nel Kurdistan turco). Ai turchi non interessa fare guerriglia urbana, solo controllare il territorio e ridurre l’YPG alla marginalità. A farne le spese saranno come sempre i civili.
Ospedali e villaggi sono finiti nel mirino delle forze turche, gli sfollati già non si contano più. Mentre nelle province frontaliere turche di Akcakale, Ceylanpinar e Nusaybin piovono i razzi e i colpi di mortaio lanciati dai curdi. A morire non sono però i nemici turchi, ma i profughi siriani accampati nelle aree di confine. Come Muhammad Omar, bambino siriano di nove mesi, nato e morto profugo, vittima di una guerra che non ha santi né eroi.
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La guerra in Siria è iniziata il 15 marzo 2011. Da allora abbiamo visto tutte le declinazioni dell’orrore svolgersi sotto ai nostri occhi: gli attacchi chimici di al-Assad – vi ricordate Ghūṭa? – e i bombardamenti russi su Idlib; la tragedia dei profughi siriani – e quattro milioni si trovano proprio in Turchia -; quella degli yazidi, vittime di genocidio da parte dell’ISIS; e quella degli arabi colpiti da pulizia etnica da parte dei curdi (iracheni), come riportato Amnesty International. In otto anni di guerra abbiamo visto ogni ignominia.
Le parti in causa, tutte, sono i carnefici. In gioco non c’è, e mai c’è stata davvero, la lotta al fondamentalismo islamico ma il controllo della Siria da parte delle potenze internazionali e gli obiettivi strategici degli attori locali. Le retoriche che si sforzano di descrivere ‘buoni’ e ‘cattivi’ lasciano il tempo che trovano. La guerra è guerra, a che ci serve sventolare le bandiere di questo o quello, come se stessimo assistendo a una partita di calcio? L’unica bandiera dovrebbe essere di pace, e la morte (ma soprattutto la vita) di Hevrin Khalaf e lì a insegnarlo. Ma la guerra è guerra anche nelle nostre coscienze. Così al funerale del Rojava ci sarà qualcuno pronto a gridare vendetta.