Il 9 novembre 2019 verranno celebrati i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, evento che segnò la fine della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti. Da allora l’Europa ha ritrovato una sua unità, almeno simbolica; buona parte dei paesi ex comunisti sono entrati nell’Unione Europea, le barriere sono state quasi completamente abbattute e gli scambi tra l’occidente e l’oriente del continente sono all’ordine del giorno.
Resta, tuttavia, un’incomunicabilità di fondo tra le due aree del continente. L’esplosione dei cosiddetti governi populisti in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, ha riacceso la secolare “questione orientale”. Il nazionalismo è un problema atavico dell’Europa dell’est? In cosa si differenzia da quello dell’Europa occidentale? Perché personalità come Orban, Borissov, Kaczynski, Babis dominano la politica dei rispettivi paesi impedendo uno sviluppo naturale della democrazia liberale?
Le risposte a queste, e ad altre domande, possono essere rintracciate spesso nel decennio che seguì il crollo del comunismo; anni di contraddizioni, cambiamenti, riassestamenti, ambiguità il più delle volte ignorate in Occidente. Troppo forte la tentazione di presentare il trionfo del capitalismo come panacea di tutti i mali della regione: per molti ad est gli anni ’90 furono più duri delle decadi precedenti. Mentre dal lato fortunato della Cortina si ascoltavano i Nirvana, si restava scioccati da Trainspotting e iniziavano a fare capolino le prime Play Station, nell’Europa orientale si lottava con gli effetti collaterali del cambiamento di sistema economico.
Come funghi, tra il grigio del cielo e del cemento socialista, apparvero i primi brand occidentali. Bucarest, che per anni aveva sofferto la cronaca mancanza di cibo, si mise in coda per un Big Mac e una manciata di patatine fritte, temporaneo sollievo dai mali del post-comunismo.
Benetton aprì un negozio a Sofia, con l’idea di sfruttare il potenzialmente enorme mercato orientale, ma ci volle del tempo per rimpiazzare il tipico vestiario bulgaro.
Alcuni non riuscirono a riadattarsi al nuovo sistema, e furono costretti all’emigrazione. L’immagine della nave Vlora stracolma di profughi albanesi resta una delle più iconiche del decennio.
E’ proprio in quegli anni ’90 di euforia, miseria, senso di libertà e disillusione che si annidano molti dei mali attuali della regione. In questi anni parte della popolazione alimenta il risentimento anti-occidentale, il nazionalismo diventa un caldo rifugio contro le incertezze della povertà, contro lo spaesamento provocato dal capitalismo. East Journal nelle prossime settimane dedicherà degli articoli specifici all’ultimo decennio del XX secolo nell’Europa orientale, cercando di metterne in luce le innumerevoli contraddizioni, con l’obiettivo specifico di gettare nuova luce su quello che seguì il crollo del muro. Un evento tanto importante da oscurare quasi completamente gli eventi successivi. Lo faremo cercando di rifuggire dai luoghi comuni, con spirito volutamente provocatorio, consci che il crollo del comunismo, oltre ad una riconquistata libertà, abbia portato alla distruzione di certezze, consuetudini, legami, che avevano caratterizzato la vita di milioni di persone per cinquant’anni.
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