di Simone Vannuccini
da Eurobull
Non è facile essere tolemaici quando inizia l’era copernicana. Per questo motivo in Europa emergono contraddizioni figlie più delle scelte politiche che dell’azione dei mercati; la variazione degli spreads sul rendimento dei titoli di debito pubblico rappresenta il meccanismo disciplinante più importante per le economie europee, ha detto recentemente Wolfagang Schäuble, ministro delle finanze tedesco, mentre contemporaneamente ribadiva la necessità di un’unità sempre più stretta fra i Paesi europei. Entrambi gli argomenti sono corretti, anche se all’apparenza sembrano scontrarsi l’un con l’altro: il rialzo dei tassi d’interesse sul debito è senza dubbio l’indicatore della divergenza e del gap esistente fra i diversi “rischio-paese” in Europa, ed è anche l’unità di misura della scommessa contro la tenuta della vacillante costruzione europea. Allo stesso modo è evidente che dalla crisi si esce con più – e non con meno – Europa: i “costi della non-Europa” sarebbero troppo alti, anche per la Germania, così legata a doppio filo (esportazioni e intrecci bancari) ai suoi partner e compagni di viaggio del Vecchio continente. Un primo assaggio di questi costi è la correzione al ribasso delle stime di crescita “cinese” del PIL tedesco. È necessaria più Europa, quindi, per uscire dalla crisi. Peccato che la definizione precisa di cosa significhi “più Europa” resti ancora avvolta dall’incertezza.
Per alcuni la traduzione più semplice del significato di “più Europa” sta in un termine solo: eurobonds. Ma – come numerosi esperti hanno già chiarito – guardando cosa c’è dietro all’idea generica di titoli del debito pubblico sovranazionali si scoprono proposte diverse: i project bonds emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), insieme con la Commissione e con soggetti privati, volti alla realizzazione di specifici assets continentali (infrastrutture, reti stradali, energetiche, telematiche), i blue bonds di Bruegel, utili a realizzare un pooling parziale (il sessanta percento) dei debiti nazionali per dare respiro ai Paesi meno virtuosi, permettendogli di evitare la spirale recessiva conseguenza certa delle politiche restrittive, gli EuroUnionBonds di Prodi e Quadrio Curzio, garantiti da un capitale versato (ad un istituto finanziario europeo) fatto di riserve auree e partecipazioni negli enti e nelle grandi società pubbliche, infine gli Eurobonds di Tremonti e Juncker, emessi da un’apposita agenzia europea del debito. Il problema resta sempre lo stesso: fare i primi passi verso l’unione fiscale, verso la federation budgetarie, come dicono i francesi, modellando un meccanismo che limiti l’azzardo morale e che dunque non punisca le nazioni virtuose.
Se il problema che affligge l’Europa è quello – in termini keynesiani – delle aspettative negative sul futuro, qualunque sia il livello dei tassi d’interesse e lo stimolo all’economia da parte della BCE, l’unica soluzione è quella di produrre un reversal of expectations attraverso un grande effetto d’annuncio, una grande dichiarazione pubblica, nello stile del New Deal. Certo, quest’idea non si lega bene alla natura specifica e funzionale dei project bonds, né alla prospettiva limitata al solo risanamento dei blue bonds. Contrariamente a quanto sostengono Hans-Werner Sinn e l’Ifo Institut, pensare ai vantaggi degli eurobonds non si riduce a calcolare meccanicamente il tasso d’interesse maggiorato (quindi il maggior costo) che la Germania dovrebbe accollarsi per salvare l’eurozona, quanto piuttosto proporre una via d’uscita politica alla crisi. Il debito pubblico europeo non sarà una mera somma di debiti sovrani nazionali, ma qualcosa di qualitativamente differente: un bene pubblico continentale. Le proiezioni ed i calcoli costi-benefici, poi, continuano a non tenere in considerazione la componente espansiva e di rilancio economico contenuta nella proposta, limitandosi a pensare gli eurobonds come strumento tecnico per ripristinare il virtuosismo nei conti nazionali. Al contrario, l’obiettivo principale dei bonds europei dovrà essere quello di mettere a disposizione le risorse per finanziare la crescita, oggi asfittica, del Vecchio continente, cioè di puntare allo sviluppo più che al risanamento. Detto in altre parole, parlare di eurobonds significa parlare dell’istituzione di un nuovo potere europeo, e non di una nuova e compromissoria – nonché temporanea – quadratura del cerchio fra le richieste, le lamentele e la miopia politica dei Paesi dell’eurogruppo; si tratta di diventare copernicani, e non di cercare l’ennesima tortuosa alternativa tolemaica.
Molti sostenitori teorici dell’idea degli eurobonds hanno comunque fatto notare che la creazione di un nuovo bene pubblico europeo, quale la capacità di emettere solidalmente debito, senza aver prima a disposizione un quadro istituzionale adeguato, dunque un’unione politica europea, significherebbe ancora una volta – dopo la realizzazione della moneta unica – mettere il carro davanti ai buoi. “Non siamo ancora pronti” è la conclusione tipica di questo genere di analisi. Pur d’accordo, insieme col Candide di Voltaire, che nel migliore dei mondi possibili dovremmo cercare prima l’unione politica definitiva e poi strutturare strumenti e politiche uniche (anche se nel migliore dei mondi possibili l’Europa politica l’avremmo già e la crisi non si sarebbe nemmeno verificata), penso che un pizzico di realismo e un minore affidamento sul principio di causalità (cioè sulla certezza di poter distinguere precisamente cosa debba avvenire prima e dopo) non guasti; l’argomento dell’attesa e dell’esser pronti o meno mi pare addirittura una posizione ingenua: l’Europa non si costruisce nel vuoto, ma si realizza di fatto come risultato dell’incontro e dello scontro di volontà politiche e poteri reali: Ragion di Stato, interessi nazionali e particolari, lungimiranza dei governanti.
Il consiglio di attendere tempi migliori mi ricorda molto il vecchio dubbio sul “fare prima l’Italia o gli italiani”, che in termini di scienza politica si riduce alla scelta “vengono prima le Istituzioni o la Cultura”? Se guardiamo alle lezioni della storia a noi più prossima, l’Italia, pur con tutti i suoi problemi, esiste in quanto sistema organizzato di poteri e livelli di governo; un’unica e totalizzante “cultura” italiana forse non esisterà mai. Siamo uniti (politicamente) nelle diversità (culturali), e la costruzione delle istituzioni politiche non si è fatta attendere ad infinitum, perché le circostanze chiedevano con forza il cambiamento. I copernicani, a quel tempo, erano i patrioti fondatori dello Stato nazionale, ma oggi – diventato inadeguato il vecchio strumento – lo stessa situazione vale per l’Europa: chiedere di attendere mentre il mondo corre non è affatto una posizione politica lungimirante, né responsabile. Chi ha a cuore il futuro dei cittadini europei, dell’Europa e anche del mondo nel suo complesso, deve capire e interpretare le contraddizioni del processo, entrarvi e sfruttarle a suo vantaggio. Il debito pubblico europeo rappresenta una di queste contraddizioni: se il principio no taxation without representation vale ancora qualcosa nel mondo globale, come è possibile creare un nuovo potere senza affiancargli un controllo democratico? C’è una sola strada da seguire: istituire un Tesoro federale, quello che Trichet ha già chiamato “Ministero dell’economia europea” (nonostante egli ne dia un’interpretazione meno federalista), controllato dal Parlamento europeo, che possa emettere eurobonds garantiti non dalla fiducia dei mercati negli stati membri, né da loro sottoscrizioni di capitale in oro o in partecipazioni, ma da un più vasto bilancio comunitario fatto di risorse proprie, finanziato da carbon tax e da altre forme di prelievo fiscale (derivanti dalla ristrutturazione federale dei sistemi fiscali nazionali). Insomma, si tratta di costruire quella Federazione leggera di cui Emma Bonino va parlando da tempo, e che i federalisti chiedono da settant’anni, da quando il Manifesto di Ventotene vide la luce. Il debito europeo è il primo passo in questa direzione, perché può creare quello squilibrio, può dare il là a quell’uneven development à la Hirschman che renda indispensabile la ricostruzione democratica dell’edificio europeo.
I tolemaici non possono che avere una prospettiva tolemaica sui fatti del mondo, così come i nazionalisti non riescono ad abbandonare lo sguardo nazionale, che sarebbe meglio definire – con le parole di Tommaso Padoa Schioppa – la veduta corta nazionale. Inserire vincoli costituzionali al pareggio di bilancio – come sta avvenendo in Spagna e come si cerca di fare in Italia – è certamente un segnale forte per chi ancora crede nella tenuta dei sistemi politici ed istituzionali nazionali, ma non può restituire completa credibilità ad una situazione come quella dell’area euro, strutturalmente fondata sull’incertezza del coordinamento e della cooperazione volontaria fra i governi. Ancora una volta con i concetti di Padoa Schioppa, siamo soggetti al giudizio di due elettorati: quello economico, che esprime il suo consenso o il suo dissenso ogni giorno e che ha dimensione continentale, o meglio mondiale, e quello politico, che segue il ciclo elettorale e che ha ancora prevalentemente dimensione nazionale. Nello scarto dimensionale fra queste duecostituencies si annidano i paradossi ed i limiti della costruzione europea: l’elettorato economico chiede un’Europa unita capace di rispondere alla crisi, l’elettorato politico è inscindibilmente legato alla veduta corta, perché riesce a vedere quasi soltanto entro i propri confini. Per i tolemaici leader europei accontentare entrambi non è possibile, si veda la fila di insuccessi elettorali di Angela Merkel nei diversi stati federati tedeschi, spesso a maggioranza storica CDU. La rivoluzione copernicana si fa dunque sempre più necessaria: è dovere della politica dare all’elettorato politico la stessa dimensione di quello economico, cioè costruire la comunità politica europea (quindi una federazione democratica sovranazionale), per riacquistare la lungimiranza perduta e per ristabilire quegli strumenti d’intervento necessari per contare sul palcoscenico globale.
Le defezioni nelle file dei tolemaici aumentano giorno dopo giorno; d’altronde è difficile continuare a sostenere che il Sole gira intorno alla Terra, o che il mondo gira intorno allo Stato nazionale, quando la realtà dice con forza il contrario. Le recenti dichiarazioni del ministro del lavoro tedesco Angela von der Leyen, i commenti di Gerard Schröder, Joschka Fischer e Ulrike Guérot a favore degli Stati Uniti d’Europa (ma anche, fuori dalla Germania, quelle di Van Rompuy – appena investito del ruolo di coordinatore di un dubbio “governo economico europeo” – e della Lagarde al Fondo monetario internazionale) dimostrano che nel dibattito politico tedesco qualcosa si sta muovendo. La recente affermazione della Merkel sulla necessità di un nuovo trattato europeo e la decisione – positiva ma con riserva, e sulla quale quindi dovremo tornare a riflettere – da parte della corte costituzionale di Karlsruhe a proposito della legittimità del finanziamento tedesco al piano di salvataggio della Grecia, indicano che i tempi sono maturi. Lo stesso vale per il dibattito in corso in Francia. E l’Italia cosa fa?
Ormai non si tratta più di scegliere quali forme parziali di integrazione possiamo sperimentare; l’alternativa è fra osare l’Europa federale o assistere al declino del Vecchio continente. Riprendendo quanto citato recentemente durante la sessione di lavoro del Senato francese dedicata all’approvazione dei finanziamenti per la Grecia, siamo arrivati al punto in cui ormai “la necessità ci libera dall’imbarazzo della scelta”.
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