Notizia di questi ultimi giorni è l’importante azione militare messa in atto dall’Egitto di Al-Sisi all’interno del territorio libico, concentrandosi in modo particolare sulla città di Derna ma colpendo obiettivi anche a Benghazi e Sirte. La versione ufficiale, più o meno universalmente adottata dai media internazionali, giustifica queste invasioni territoriali spiegando che, con l’intervento egiziano, circa settanta combattenti Isis sono morti e che Al-Sisi sta comprensibilmente reagendo all’apparente uccisione sulle coste libiche di 21 copti, suoi connazionali, da parte di gruppi jihadisti che potrebbero essere vicini allo Stato Islamico. Il condizionale è d’obbligo: la presenza dell’Isis all’interno dei confini libici è tutt’altro che verificata.
Mentre Al-Sisi, da una parte, dà autonomamente il via ad azioni militari in Libia, dall’altra chiede all’Onu l’autorizzazione per procedere con le maniere forti, a patto che il popolo e il governo libici siano d’accordo: una posizione condivisa con i delegati della Lega Araba, i quali non osteggiano a priori un’azione militare. La Libia però, lasciando da parte la miriade di piccoli gruppi che contribuiscono a confondere le acque – almeno agli occhi degli occidentali – è spaccata in due: due Parlamenti, due Primi Ministri, due raggruppamenti di milizie. Dunque quale popolo, quale governo?
Guardando agli equilibri delle alleanze in Libia il quadro diventa più chiaro: non è un mistero che l’Egitto abbia espresso sostegno nei confronti del governo di Tobruk e dell’operato di Haftar. L’affinità tra Al-Sisi e Haftar è lampante: entrambi Generali nell’esercito nazionale ed entrambi mossi dalla volontà di silenziare le forze islamiche all’interno dei propri Paesi. Il mix di estremisti religiosi, attivi soprattutto nel Sinai, e della lotta ancora aperta in Libia, fanno temere ad Al-Sisi una deriva terroristica incontrollabile anche in Egitto.
Il parlamento laicista di Tobruk, nonostante sia quello riconosciuto dalla comunità internazionale, riflette solo in parte i risultati delle ultime elezioni – che hanno avuto un’affluenza del solo 18% – e appoggia figure che, prima del 2011, sono state legate a Gheddafi, Haftar in primis: difficile dunque pensare che la maggior parte della popolazione si senta vicina a questo governo esule.
Il governo di Tripoli, più di ispirazione islamista e vicino alla branca libica dei Fratelli Musulmani, è sostenuto da una grossa fetta di milizie attive durante la rivoluzione di quattro anni fa, come quelle di Misurata, fra le meglio armate e più numerose. Sembrerebbe non osteggiare neanche i gruppi considerati più estremisti, se non terroristici, come quello di Ansar al-Sharia, particolarmente attivo a Benghazi, a Sirte e, probabilmente, anche a Derna: proprio Ansar al-Sharia è tuttora in scontro aperto con le forze armate di Haftar.
Alla luce di questo quadro di alleanze è lecito pensare che Al-Sisi non aspettasse altro che un buon motivo per entrare in Libia con il suo esercito, proprio mentre il delegato Onu Bernardino Leòn sta con fatica mettendo i due governi libici a negoziare attorno allo stesso tavolo. Favorevoli a una risoluzione politica della crisi in Libia sono anche gli Usa e l’Unione Europea, Italia compresa. Probabilmente quella diplomatica è davvero l’unica strada percorribile al momento: un intervento militare all’interno del Paese acuirebbe le già gravi spaccature della società libica perché significherebbe, in ogni scenario possibile, schierarsi con l’una o l’altra fazione.
L’impressione è quella di trovarsi di fronte a una serie di eventi legati tra loro da un rapporto causa-effetto ben diverso da quello che viene presentato dalla maggior parte dei media, secondo cui l’inasprirsi della crisi in Libia sta rendendo necessario un intervento deciso e urgente: in realtà si parla di guerra civile nell’area da mesi, se non anni, e nulla sta scuotendo particolarmente la situazione attuale, se non la stessa ingerenza degli altri stati.