Una volta (e non era tanto, tanto tempo fa) Eric Hobsbawm si espresse più o meno in questo modo sull’argomento: assieme alla fine del comunismo è scomparsa una mole enorme di valori, abitudini e pratiche sociali che avevano segnato la vita di intere generazioni nella ex URSS e paesi da essa controllati. «Dobbiamo così riconoscere quanto profondi e gravi siano risultati gli shock e le disgrazie in termini umani verificatesi in conseguenza di questo brusco e inaspettato terremoto sociale».
Non è questa la sede più adatta -o forse lo sarebbe tuttavia è sempre complicato e rischioso misurarsi nell’esercizio in poche battute- per valutare la correttezza degli aggettivi brusco o inaspettato. Dunque limitiamocia sottolineare come senza dubbio di shock si trattò, e pure vi seguirono una discreta sequenza di disgrazie.
Numerosi strati della società russa divergono in altrettanto numerosi aspetti dai corrispettivi in nazioni dell’Europa centrale nonostante la tendenza, spesso ancora riscontrabile, a ritenere un minestrone omogeneo le realtà che dal confine orientale della Germania si srotolano fino alla Kamčatka. Ciò è da ricondurre a caratteristiche fortemente radicate nella realtà sovietica e solo sovietica, unite alle singolari modalità di crescita e sviluppo nel post-1991.
In zona gli attuali trentenni/trentacinquenni sono ragazzi venuti al mondo nel rigido socialismo di fine anni settanta, educati a ridosso della caduta e maturati prima di Putin nel quasi decennio di Eltsin al potere. Mercato sfrenato, neonati oligarchi ad impadronirsi delle maggiori risorse del paese durante caotiche privatizzazioni, illusioni e contrasto con una società ancora per gran parte basata su regole difficilmente inquadrabili. E sebbene un discorso generazionale unitario e onnicomprensivo sarebbe impossibile da fare (basta guardare ai moltissimi ragazzi che nelle scorse settimane hanno protestato contro il duo Medvedev-Putin limitando i colpi di testa e le derive violente) tocca ammettere che da tempo ormai la letteratura abbia scelto di puntare lo sguardo con particolare attenzione alle fasce più estreme della società post-sovietica. Dai giovani che la guerra l’hanno fatta sul serio in qualche forma e in qualche bosco, a chi la guerra la combatte ogni giorno per restare a galla nelle più grandi città e sterminate periferie. Loro sono gli oggetti di ricerca privilegiati e funzionali e tra loro va scovato il DJ Stalingrad di Esodo. In Italia pubblicato da Elliot Edizioni.
Breve bio dell’autore (brevità inevitabile dato quanto segue.) DJ Stalingrad è uno pseudonimo e nessuno sa come davvero si chiami. O meglio: qualcuno sicuramente lo sa però non è questo il punto. Nessuno l’ha mai visto ed è in fuga. Da cosa è in fuga? Dalla sopracitata Russia, posticino con il quale ha numerosi conti in sospeso e casomai tu scegliessi di scalare i vertici del movimento anarchico moscovita è anche immaginabile qualche attrito nella quotidianità.
Esodo è la storia di una vita tra risse, concerti, spedizioni notturne in farmacia, spaccio e attese. Cronaca di una esistenza ai bordi nella quale si alternano due registri, mescolandosi e compensandosi: una voce sociale e saggistica (si seziona nel profondo l’odiato capitalismo post-sovietico. L’odiata polizia. Gli odiati sottomessi dal sistema. Gli odiati altri che come te sono finiti emarginati per necessità di ribellione) e una intimistica voce narrativa utilizzabile come bus o treno rugginoso sul quale salire per seguire lo sviluppo della vicenda, un frenetico susseguirsi di pugni e colpi di spranga dati e ricevuti da un gruppetto di reietti disillusi, sebbene fedeli ad un ideale di libertà nella comunità e divino nella solitudine. O almeno così è per il protagonista, il quale trova temporaneo compimento alla propria fuga nell’isolamento, sublimazione della lunga ricerca di dio che nel testo scorre parallela ai calci. «Noi siamo la schifosa generazione post-sovietica, non abbiamo nulla, né obbiettivi né principi, ma un secolo di comunismo ci ha lasciato in eredità la nostalgia. […] E’ passato tempo e ora ci sono rimasti soltanto un abisso di disprezzo e cinismo, nichilismo pragmatico e fiacca brama di possesso.» Queste, per altro, sezioni riuscitissime di Esodo perché capaci di un lirismo che svetta tra sostanze e schiaffoni e alcool. Quindi «egli è venuto a me dalle nere finestre della notte, dall’oscurità degli interminabili inverni moscoviti. Ha aperto la finestra, è entrato nel mio sparuto cuore di bambino e ha detto: tu sei condannato, tutto andrà molto male» si scrive di dio. Il futuro è scritto ed è buio però trovare una via di uscita resta possibile. Poiché esiste salvezza anche in una vita di «disperazione, stupidità, determinatezza e bruttura.» Così sarà e affidati a me.
Non saprei esprimermi su quanto sia Esodo di DJ Stalingrad una parabola; identificare insegnamenti morali esportabili al di fuori di questa Russia è infatti esercizio piuttosto rischioso. Ma filtra quasi ovunque l’idea di riscossa da tanta esasperazione ed estremizzazione. In un testo è indice di spessore. In uno spaccato di società, magari possibilità reale di miglioramento. Strano a dirsi ma Esodo, più che sangue, raid, alcol e droga tra Mosca e San Pietroburgo, è un libro sugli altissimi sentimenti.
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