BOSNIA: Verso le elezioni. Molte incertezze, poche speranze

La Bosnia-Erzegovina attende le elezioni politiche di questa domenica, 12 ottobre, in un clima privo di particolari entusiasmi ed aspettative. La situazione socio-economica del paese è sempre più depressa, con una disoccupazione reale attorno al 27% (ma quella giovanile si attesta al 63%); lo stallo delle istituzioni, bloccate dai perversi meccanismi dell’ “etnopoli” post-bellica, è permanente; tra i candidati e i partiti, sono poche le novità di rilievo rispetto alle ultime tornate elettorali. Questi elementi hanno fiaccato la campagna elettorale, per lo piu’ ridotta a slogan (e in qualche caso interi programmiriciclati dal passato. Non sorprende, dato che buona parte della legislatura statale 2010-2014 è trascorsa a vuoto per la mancanza di un accordo di governo tra i principali partiti.

Tutto ciò non toglie che i risultati, a pochi giorni del voto, siano ancora molto incerti. Sono possibili significativi cambiamenti, anche se sarebbero in gran parte interni alle logiche della vecchia politica ed ai cartelli di potere che hanno controllato il paese negli ultimi venti anni. I principali interrogativi sono due: se Milorad Dodik manterrà il potere pluridecennale in Repubblica Srpska; e se il Fronte Democratico di Željko Komšić, praticamente l’unica novita’ di queste elezioni, riuscirà a spuntarla nella Federazione di BiH.

Una premessa: guida elettorale all’etnopoli

Si voterà per tre livelli territoriali: gli organi centrali, quelli delle due entità che compongono il paese (la Federazione di BiH e la Repubblica Srpska), e quelli dei dieci cantoni che compongono la Federazione. Ma anche nel caso degli organi statali, si tratta in verità di competizioni elettorali di fatto separate, tre nel caso della Presidenza e due in quello del Parlamento. Nella Presidenza si eleggono infatti tre membri: un bosgnacco, un serbo, un croato. Quanto al parlamento statale, composto di due rami, i 42 deputati della Camera bassa vengono eletti a livello delle due entità, la Federazione di BiH (28) e la Republika Srpska (14), mentre i membri della Camera alta verranno designati dai parlamenti delle due entità.

Nelle due entità, si voterà per i due rispettivi Parlamenti (i quali sono, di fatto, gli organi legislativi più importanti del paese, dato che i principali ambiti di sovranità risiedono nelle entità e non nello stato centrale): il Parlamento della Federazione, 98 membri; e quello della Republika Srpska, con 83 membri.

Infine, si voterà per i parlamenti dei dieci cantoni della Federazione (289 membri in tutto) i quali detengono a loro volta ampi margini di autonomia in determinati settori, come l’istruzione, le infrastrutture o la sanità. Questo quadro preliminare e introduttivo (qui uno più esaustivo) illustra bene la complessità del sistema politico bosniaco, che alimenta la disaffezione dei cittadini, frustrati per un rapporto di rappresentanza impossibile da verificare, e la dispersione dei processi decisionali che genera a sua volta una mostruosa inefficienza. Infatti, l’affluenza sarà ancora bassa (nel 2010 fu circa il 56%), anche se la disaffezione è in parte compensata da fenomeni come il voto di scambio o per clientele, ancora molto diffusi.

Repubblica Srpska: il tramonto dell’era Dodik?

L’elemento forse più interessante di tutte le elezioni è probabilmente la lotta interna alla Republika Srpska. Il regno di Milorad Dodik, ininterrottamente al potere dal 2002 prima come premier e poi come presidente dell’entità, potrebbe avviarsi alla conclusione. Il suo sistema di potere si è costruito sulla forte centralizzazione della Republika, sull’intreccio tra privatizzazioni e reti clientelari, e su un controllo ferreo dei media (la TV pubblica e i due principali giornali di Banja Luka). Il tutto con un’opprimente retorica sciovinista e con un’ossessiva smania di ostentare rapporti diretti con la Russia di Vladimir Putin. Ma il consenso per Dodik e il suo partito, SNSD (“Alleanza dei socialdemocratici indipendenti”, espulso nel 2011 dall’Internazionale Socialista per le sue intemperanze nazionaliste) non è più saldo come un tempo. Si pronostica un testa a testa per la poltrona serba della presidenza statale, tra la pedina di Dodik Željka Cvijanović (oggi prima ministra della Srpska) e l’esponente dell’opposizione unita Mladen Ivanić, un politico esperto e di lungo corso. Dodik scenderà in campo nell’elezione del Presidente della Srpska, dove lo sfiderà Ognjen Tadić del Partito Democratico Serbo (SDS).

Come è abitudine da anni, Dodik ha alzato il tiro dello scontro inter-etnico, facendo frequenti allusioni al pericolo dell’integralismo islamico e all’esistenza di uno “scontro di civiltà” in BiH, al punto di proporre lui stesso la “terza entità”, ovvero la creazione di un’entità croata nell’Erzegovina. Si tratta di una proposta in passato cavalcata dai nazionalisti croati dell’HDZ (che però, curiosamente, non l’hanno ufficialmente fatta propria in questa campagna elettorale). Nella visione di Dodik, questo passo sarebbe strumentale ad indebolire ulteriormente lo stato centrale bosniaco, rendendo inevitabile una ulteriore autonomia della Republika Srpska o la sua definitiva separazione.

La polarizzazione nazionalista e autoritaria di Dodik ha creato due grandi paradossi in Repubblica Srpska. Il primo e’ il mutamento del principale partito dell’opposizione. SDS, Partito Democratico Serbo, fu fondato da Radovan Karadžić, Momčilo Krajšnik e degli altri responsabili della pulizia etnica e dei massacri degli anni Novanta. Pur di fare opposizione a Dodik, SDS è diventato oggi un partito più “moderato”, razionale e disponibile al dialogo con i partiti non serbi (al punto che Dodik li definisce con sprezzo “filo-bosniaci”). A questa operazione ha contribuito un rinnovamento generazionale, che vede il proprio simbolo in Ognjen Tadić, il quarantenne che sfiderá Dodik alle elezioni per la presidenza della RS.

Sia chiaro, non c’è da farsi troppe illusioni. Lo stigma del marchio SDS, rinnovamento o meno, evocherà sempre ricordi terribili; e se quasi nessuno dei leader del partito appartiene alla “vecchia guardia” degli anni novanta, a livello locale ci sono ancora diversi quadri che furono partecipi dei crimini di guerra o dei soprusi del dopo guerra. Inoltre, va ricordato il precedente dello stesso Dodik, che iniziò la sua avventura politica, a fine anni novanta, come delfino della Srpska non-nazionalista e persino della comunità internazionale (che lo sostenne in misura generosa, politicamente ed economicamente) prima di vivere la metamorfosi ad autocrate nazionalista. Tuttavia, bisogna ammettere che l’eventuale sconfitta dell’SNSD e la vittoria del “nuovo” SDS potrebbe aprire una fase nuova per la Republika Srpska e per la Bosnia-Erzegovina, con nuovi volti e forse con un nuovo discorso.

Un altro paradosso è che i rapporti tra Dodik e il governo della Serbia si sono assai raffreddati da quando a Belgrado è giunto al potere il Partito del Progresso di Toma Nikolić e Aleksander Vučić. Le ragioni sono due: primo, Dodik era molto vicino all’ex presidente Tadić (rivale di Nikolić e Vučić); secondo, l’esuberanza di Dodik, che si è creato una politica estera propria, orientata verso Putin e il progetto South Stream, è malvista nei circoli di Belgrado, che vedrebbe con favore una leadership più docile a Banja Luka. Non a caso, Dodik non e’ stato invitato dal governo serbo per la visita di Vladimir Putin a Belgrado, prevista per il prossimo 16 ottobre. Un gelo che potrebbe non influire piu’ di tanto sull’elettorato, ma di certo avra’ conseguenze sul dopo voto.

La partita della Federazione

Per la presidenza bosgnacca la competizione è ancora più serrata, perché il gran numero di candidati frammenta l’elettorato e rafforza l’incertezza. Sono cinque i candidati principali. Il presidente uscente Bakir Izetbegović (SDA, centro-destra conservatore) è in testa secondo la maggior parte di sondaggi e analisti. L’SDA è ancora il partito più forte in termini di radicamento territoriale e controllo degli apparati locali (degno di nota che, pochi giorni fa, ben 700 iscritti di un partito avversario sono passati in blocco all’SDA nei comuni della cintura di Sarajevo). Izetbegović ha anche ottimi rapporti col governo turco di Erdogan, la cui influenza a Sarajevo – in termini di investimenti economici, influenza culturale, programmi d’istruzione, flussi turistici, etc. – è in costante crescita.

Le insidie maggiori per Izetbegović vengono dall’attivista Emir Suljagić e dal magnate dell’informazione Fahrudin Radončić. Suljagić è il volto giovane e carismatico del Fronte Democratico (DF), un partito civico non-nazionalista nato da una scissione dei socialdemocratici, capeggiata dall’ormai ex presidente Željko Komsić; Suljagić, che sopravvisse al genocidio di Srebrenica, negli scorsi anni e’ salito alla ribalta come il leader di iniziative a sostegno dei diritti dei cittadini non-serbi nella Republika Srpska. La sua candidatura avrà sicuramente grande successo soprattutto nei ceti urbani e intellettuali, come dimostra l’endorsement di diverse figure di spicco della società civile (come il professore Zdravko Grebo, il giornalista Boro Kontić e lo scrittore Aleksandar Hemon) il cui peso elettorale reale, però, rimane incerto. Inoltre resta da vedere la reale consistenza del neonato Fronte Democratico negli altri livelli elettorali, quello parlamentare e cantonale, da sempre più impermeabili al cambio politico e, come spiegato in precedenza, molto più rilevanti nei processi decisionali rispetto alla Presidenza.

L’altra incognita è Fahrudin Radončić, il magnate dell’informazione talvolta soprannominato “Berlusconi di Bosnia”, ormai cronico ‘uomo nuovo’ della politica bosniaca nonostante siano passati già cinque anni dalla sua discesa in campo e dalla fondazione del proprio partito (SBB, Partito per un Futuro Migliore). Dopo le proteste di febbraio, strumentalmente appoggiate da Radončić, in molti pronosticavano una sua facile vittoria in queste elezioni, proprio perché avrebbe cavalcato facilmente l’indignazione contro i dinosauri della politica bosniaca (SDA e SDP). Eppure, analisi e sondaggi danno di nuovo Radončić e il suo partito in difficoltà. Da tempo si vocifera insistentemente su un’alleanza di fatto tra SBB di Radončić e il Fronte Democratico di Komšić, che verrebbe formalizzata l’indomani delle elezioni, relegando SDP e SDA all’opposizione ed aprendo un “nuovo corso” politico fondato sulla lotta alla corruzione. Di certo nessun partito avrà la forza per governare da solo; d’altra parte, un simile patto risulterebbe indigesto all’elettorato più “civico” e moralizzatore del Fronte Democratico, che vede con disprezzo il magnate Radončić, su cui gravano sospetti di antiche collusioni con la criminalita’ organizzata.

Più defilati e con scarse possibilità di vittoria, ma potenzialmente decisivi per i voti che sottrarranno agli avversari piu’ ideologicamente vicini, sono Bakir Hadžiomerović e Mustafa Cerić. Il primo è un noto giornalista che corre con i socialdemocratici (SDP), vincitori delle elezioni del 2010 ma dati da tutti in caduta libera per il dissenso contro il suo leader Zlatko Lagumdžija. Il suo operato dispotico ha causato la fuoriuscita di Komšić, che ha spaccato il partito erede della Lega dei Comunisti e tradizionale campione dell’opzione progressista non-etnica. Il vero esame per l’SDP, date per perse le presidenziali, sarà comunque nelle elezioni parlamentari, nonché in quelle dei cantoni, molti dei quali erano governati dall’SDP nel precedente mandato, e dunque potrebbero segnarne il declino definitivo. Mustafa Cerić è invece l’ex leader della Comunità Islamica bosniaca che corre da indipendente; la sua candidatura, che ha generato controversie tanto in ambienti religiosi tanto in quelli laici, potrebbe sfilare qualche migliaio di voti conservatori militanti proprio a Izetbegović; i maligni sussurrano che sia stato invitato a presentarsi da Radoncic, amico personale di Cerić, proprio in questa funzione.

Nel campo croato, la competizione principale di fatto è tra due soli partiti, entrambi nazionalisti, HDZ e HDZ 1990. Non ci sono differenze politiche di fondo tra i due partiti, se non che il candidato presidenziale dell’HDZ 1990, Martin Raguž, ha un profilo più conciliante rispetto all’omologo dell’HDZ, Dragan Čović. Per questi due partiti, al di là del risultato elettorale, molto dipenderà dalle negoziazioni post-voto con le forze bosgnacche e serbe.

Molte incertezze, poche speranze. L’incognita dei movimenti

Il risultato delle elezioni appare incerto, ma a prescindere dall’esito si intravedono poche potenzialità per un’uscita del paese dall’impasse. Nonostante l’elevato numero di partiti e liste, le differenze reali in quanto alle politiche socioeconomiche sono minime o nulle; sulle riforme istituzionali, vi sono solo proclami o minacce, ma nessuna proposta che aggiri lo status quo. Mancano le alternative, d’altra parte gli stessi due partiti non etnici (Fronte democratico e Partito socialdemocratico) sono presenti quasi esclusivamente presso la comunità bosgnacca o tutt’al più presso ristretti circoli urbani. La stessa iniziativa del sopracitato Emir Suljagić a favore delle minoranze in Republika Srpska (oggi nota come Domovina) ha trovato mille difficoltà e si tramutata, di fatto, in un cartello di tutti i partiti bosgnacchi, compresi quelli conservatori e identitari. Altri partiti civici e di rottura con gli schemi esistenti risultano non pervenuti, così come (per ora) i movimenti sociali piombati sulla scena pubblica nell’ultimo anno e mezzo (la Bebolucija, i plenum). Ma se la politica non risponde, la società potrebbe trovare un modo per porre le domande da sola. E anche in Bosnia-Erzegovina potrebbe succedere di nuovo, seppure con tempi e modi imprevedibili.

Photo credit: izbori.ba (Commissione Elettorale BiH)

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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