Il 5 febbraio 2014 a Tuzla, città conosciuta per la produzione di sale (Tuzla significa “suolo salato” in turco), un raduno pacifico di persone, in maggioranza lavoratori di aziende privatizzate e in bancarotta, affiancati da studenti, è terminato in modo violento, con un bilancio di ventitré feriti e ventisette persone arrestate. Anche un cameraman della tv locale è stato colpito da un agente di polizia. A protestare erano i lavoratori che, a causa della privatizzazione delle industrie Konjuh, Polihem, Dita e Resod-Gumig, principale fonte di reddito per la città e per la sua popolazione, si sono ritrovati senza lavoro.
Circa 3.000 persone sono scese in piazza e hanno occupato le strade principali della città, bloccato il traffico per diverse ore. In seguito all’intervento della polizia antisommossa, che ha caricato i manifestanti di fronte alla sede del governo cantonale e della corte, le proteste hanno preso una piega violenta, con lancio di sassi contro gli edifici da parte dei manifestanti e l’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.
I lavoratori, dal canto loro, chiedevano che venissero pagati loro i contributi previdenziali e pensionistici. Reclamavano inoltre condizioni di vita dignitose e posti di lavoro per i giovani, il cui tasso di disoccupazione non si arresta (l’Organizzazione internazionale del lavoro stima che il tasso di disoccupazione in Bosnia-Erzegovina sia pari al 28%, e che la disoccupazione dei giovani tra i 15 e 24 anni superi il 60%).
La protesta è stata organizzata attraverso il gruppo facebook 50.000 za bolje sutra (“50.000 persone per un domani migliore”) e Udar, ma i principali organizzatori rimangono i sindacati delle aziende di Tuzla. Le proteste di ieri sembrano essere le più riuscite di tutta una serie di proteste su piccola scala che i lavoratori di tutte queste società hanno organizzato negli ultimi dieci anni. Sicuramente hanno un alto valore simbolico, perché rappresentano il primo tentativo di organizzare una protesta unitaria dei lavoratori nella Bosnia del dopoguerra.
La privatizzazione della fabbrica DITA
Per cercare di capire l’esasperazione dei lavoratori di Tuzla, la cui situazione può essere generalizzata all’intera Bosnia, basta guardare al processo di privatizzazione della fabbrica DITA. Acquistata nel 2005 dalla società Lora, a sua volta proprietà della Beohemija con sede a Belgrado, la società è andata sistematicamente in fallimento. Gli operai sostengono che, tra il 2009 e il 2010 sia stato dato loro l’ordine di mettere del sale nella miscela chimica utilizzata per produrre detersivi, sale che progressivamente ha danneggiato i macchinari. In seguito al fallimento dell’azienda, a dicembre 2012 quaranta lavorati della DITA hanno iniziato una protesta per tentare di salvare l’azienda, ma invece di indurre uno sciopero della produzione, hanno continuato a farla andare avanti in modo autogestito. Ai lavoratori della DITA sono dovuti più di cinquanta mensilità arretrate e alla maggior parte di loro mancano parecchi anni di servizio per poter andare in pensione, a causa del processo di privatizzazione che si è trascinato dal 2002.
Diverse proteste, un unico detonatore
La storia della DITA è solamente uno dei sintomi della situazione in cui versa la Bosnia, e le proteste mettono in luce la situazione di precarietà che affligge tutti i bosniaci e che non conosce confini. Per la prima volta dopo lo stallo del dopoguerra, però, i lavoratori si sono uniti per combattere a difesa dei propri diritti. La mancanza di un legame tra le diverse esplosioni di malcontento e rabbia degli ultimi anni in Bosnia dimostra non solo che le divisioni interne alla società persistono in seguito alla guerra delle 1995, ma che sono state alimentate dalle élite politiche che in questi venti anni hanno gettato benzina sul fuoco per distogliere l’attenzione dai problemi economici del paese.
Questa protesta potrebbe allora diventare l’occasione tanto attesa per reintrodurre il concetto di lotta di classe in Bosnia, allontanandosi finalmente dagli immaginari nazionalisti delle élite politiche. Quello che i lavoratori di Tuzla hanno reso evidente è che i bisogni collettivi non conoscono differenze etniche né confessionali, e che la loro protesta è un campanello di allarme per tutti coloro che ogni giorno soffrono l’ingiustizia delle élite politiche. Questa lotta, pertanto, non può essere chiamata “mia”, “tua”, “loro”, ma è la lotta di tutti noi, perché siamo tutti sulla stessa barca.
Foto: Kilx.ba
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