Una riflessione di Vladimir Unkovski-Korica* sulla caduta di Slobodan Milošević e sulla sua eredità nella Serbia e nei Balcani attuali, e sulle ragioni per cui la sinistra descrive la caduta di Milošević come complotto internazionale o congiura nazionalista. Tale riflessione non rappresenta necessariamente l’opinione della redazione di East Journal, ma è presentata quale contributo per un dibattito plurale e complessivo sulla questione.
Sono passati sedici anni dalla caduta del regime di Slobodan Milošević. In Serbia c’è grande disillusione per i risultati della rivoluzione. Tuttavia, ci sono alcune ragioni per continuare a celebrare quell’evento.
Primo: come ha dimostrato Lindsey German, gli operai sono stati essenziali nella rivolta che ha infine rovesciato un regime che affermava di difendere il socialismo. Questo dimostra che anche dopo anni di crisi economica, manipolazione ideologica e intervento internazionale, la classe lavoratrice è rimasta un attore centrale nella società.
Secondo: è stata la popolazione serba, e non l’intervento internazionale, ad essere cruciale per il rovesciamento del regime. Milošević ha resistito a lungo al potere in gran parte perché è stato capace di presentarsi, in modo ingannevole, come un patriota che difendeva il paese da nemici esterni. Non è un caso che l’unico avversario che poteva sconfiggere Milošević in un’elezione diretta fosse uno che poteva essere considerato anch’egli un nazionalista, qualcuno che non svenderebbe il paese un minuto dopo aver vinto (e invece è avvenuto proprio questo!).
Terzo, forse l’aspetto più ironico, visto quello che ho scritto sul nazionalismo poco sopra: la rivoluzione del 5 ottobre 2000 ha spezzato la schiena del nazionalismo militante serbo. Sì, chi vinse le elezioni era un nazionalista. Sì, quel giorno i manifestanti cantarono canzoni nazionaliste della seconda guerra mondiale davanti al parlamento. E sì, gran parte dei leader dell’opposizione più importanti avevano sostenuto, in un modo o nell’altro, il ruolo vergognoso della Serbia nella guerra in Bosnia-Erzegovina. Non dimentichiamo che Zoran Djindjić, il prediletto dei liberali, aveva visitato il leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić come forma di sostegno, a Pale, nel 1994. Tuttavia, la dinamica della rivolta popolare nel 2000 è stata tale da sconfiggere il macellaio dei Balcani.
I liberali ora denunciano le carenze del giorno dopo e della “de-miloševićizzazione” degli apparati dello stato. Ed è vero che l’élite serba continua a esercitare ingerenze e a stimolare divisione nel lungo periodo in Kosovo, in Bosnia e altrove; ma lo sta facendo in modo molto meno radicale dopo il 5 ottobre 2000. La ragione è semplice: le persone che si unirono per rovesciare il regime avevano diversi obiettivi e interessi, ma la loro azione unita e collettiva destabilizzò e minò la capacità degli apparati dello stato di intervenire fuori dai propri confini nello stesso modo in cui lo facevano prima. Inoltre, è significativo che lavoratori in tutta la ex-Jugoslavia hanno celebrato la fine di Milošević; questo dovrebbe ricordare alla sinistra serba i suoi principi internazionalisti.
Quarto: tutto ciò dovrebbe incoraggiarci a riprendere la lotta contro un sistema che porta con sé povertà e guerra. Le illusioni che esistevano nella “Europa” del 2000 sono svanite. Dovremmo stare attenti a spiegare quali aspetti della rivoluzione del 2000 sono da condannare per non avere generato un cambio reale, e tra gli aspetti principali dovrebbe esserci l’illusione per l’Unione Europea.
L’Unione Europea non ha portato pace e prosperità, e non potrà farlo, con le sue strutture non democratiche, direttamente legate alle politiche di austerità. È una struttura imperialista che non possiamo riformare: guardate cosa ha fatto in Grecia. Quindi guardiamo ai movimenti di resistenza, soprattutto nella regione della periferia europea di cui siamo ancora parte, e a cui siamo legati. Quindi, lasciateci ricordare la gioia che gli altri nella regione hanno provato quando i lavoratori serbi hanno inferto una pugnalata al cuore del macellaio dei Balcani. Quell’evento ha dimostrato, per un momento, ciò che è possibile. I Balcani liberi dal nazionalismo, ma anche i Balcani liberi dall’imperialismo.
Quindi, celebriamo di nuovo la capacità della gente comune di cambiare le proprie condizioni di vita, anche in cambio delle tanti manipolazioni e delle illusioni che hanno accompagnato i cambiamenti. E affrontiamo il pessimismo rampante nella sinistra, demoralizzata e contraria a molte sfide. Abbiamo lottato prima, abbiamo vinto, e dobbiamo ricordarlo. Per usare quella vecchia citazione di Gramsci, che è sicuramente abusata, ma, ehi: manteniamo un salutare pessimismo della ragione, ma anche un ottimismo della volontà.
*Vladimir Unkovski-Korica è docente di storia contemporanea all’Università di Glasgow e attivista di Marks21 in Serbia. Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Lefteast. Traduzione di Alfredo Sasso.
Foto: Jose Luis RDS