Sentenza Karadzic, un’importante eredità per il futuro dei Balcani

“Capii che questo era il tratto distintivo del suo carattere: era capace di cambiare la sua personalità ed umore per adattarsi alle necessità del momento. Era un camaleonte, flessibile, con modi che sarebbero comici, se le sue parole e azioni non avessero marcato il destino di tante vite umane”. Lo scrive lo storico Robert Donia, nella sua recente e ben documentata biografia di Radovan Karadžić. Donia sostiene che prima del 1990 non si manifestò in Karadžić inclinazione alla violenza, al sadismo o al nazionalismo. Certo, era molto ambizioso e stravagante, come reso evidente dalle poesie tormentate, dagli affari immobiliari, dalle tecniche inconsuete con cui trattava i pazienti psichiatrici. Ma allo stesso tempo, la sua esistenza era relativamente ordinaria: famiglia stabile, totale indifferenza per la politica (ad eccezione del giugno 1968, quando da studente partecipò al movimento universitario), una certa integrazione nell’ambiente sociale sarajevese. Racconta Ismet Cerić, suo supervisore quando lavorava all’ospedale di Koševo, che Karadžić telefonava alla sua famiglia per fare loro gli auguri “a ogni festività religiosa” (musulmana, nel caso dei Cerić), una prassi comune nella Sarajevo prima del conflitto, tratto fondante del buon vicinato radicato sin dall’epoca ottomana. “Persino dopo che è iniziata la guerra, ci ha chiamato per farci gli auguri per il Bajram”, ricorda Cerić.

Come per tanti suoi omologhi, non fu per una consolidata coscienza nazionalista, ma per un incrocio di diverse contingenze che Karadžić entrò in politica dalla porta principale nel 1990. Primo, l’ambizione personale al vedere le opportunità spalancate dalla drastica implosione del titoismo (non a caso esplorò con discrezione un’altra opzione, quella dei verdi). Secondo, gli ottimi contatti all’interno della cupola intellettuale dei nazionalisti serbo-bosniaci, che lo catapultò a leader dell’SDS a sorpresa, più per rinunce altrui che per meriti propri. Terzo, un certo risentimento anti-sistema, o più esplicitamente anti-comunista, già presente nella formazione di Karadžić (il padre combatté con i cetnici ultranazionalisti e fu prigioniero dei partigiani nella II guerra mondiale), e cresciuto durante il periodo in carcere a metà anni ’80, dopo avere sottratto fondi pubblici per comprarsi proprietà immobiliari insieme al suo amico e futuro compagno di partito e di crimini di guerra, Momčilo Krajišnik. Da notare che anche gli altri due principali leader nazionalisti del conflitto, il musulmano Alija Izetbegović e il croato Mate Boban, conobbero – per ragioni molto diverse – il carcere negli anni ottanta e questo contribuì ad accreditarli come dissidenti e martiri del regime.

Qui inizia la prima metamorfosi del Karadžić come personaggio pubblico. Nella campagna elettorale del 1990 cavalca la sedicente “rigenerazione nazionale” lamentando presunti soprusi e arbitrarietà del titoismo ai danni dei serbo-bosniaci. Ma non attacca mai le “altre” comunità nazionali, verso le quali si mostra dialogante e conciliante. Un “buon vicino”, di nuovo. Rifiuta di presentarsi alle elezioni presidenziali e persino a quelle parlamentari. Sembra reticenza caratteriale, ma solo più tardi si capirà che gli interessa imporre una “partito-etno-crazia”, che svuoti le istituzioni legittime per forzare nuove forme di rappresentanza su base puramente etnica, modellate attorno al partito (unico) della nazione. E i tre partiti nazionalisti trionfano alle elezioni bosniaco-erzegovesi del 1990, ai danni delle forze civiche e riformiste. Ma la sinergia inter-nazionalista si rivela un mero strumento tattico tra forze con obiettivi in verità opposti, con l’unico denominatore comune di scalzare i post-comunisti e spartirsi il potere.

È nel corso del 1991, mentre il resto della Jugoslavia si sgretola violentemente, e in Bosnia-Erzegovina vige il caos istituzionale, che da nazionalista moderato e quasi riluttante Karadžić si trasforma, sostiene Donia, in “pianificatore visionario” della guerra e della pulizia etnica, preludio dell’“architetto del genocidio”. Galvanizzato dal potere personale ma frustrato dall’incertezza degli eventi, assistito politicamente e militarmente da Belgrado ma mai succube di Milošević (con cui negli anni scambia complicità, rivalità e qualche rottura) cambia radicalmente il suo discorso pubblico. Karadžić diventa drastico, apocalittico, minaccioso, ossessivamente legato a missioni identitarie e storiciste. Fino a esplodere in quel fatidico discorso al parlamento bosniaco-erzegovese nell’ottobre 1991, quando evoca la possibile “sparizione del popolo musulmano” lungo l’“autostrada della rovina e della morte”. Eppure è quel discorso stesso che contribuirà a fare scendere la Bosnia-Erzegovina verso l’inferno, e Karadžić in un viaggio senza uscita all’Aja.

La sentenza

Proprio la sentenza dell’ICTY di ieri ha riaffermato che deportazioni e crimini ai danni della popolazione non-serba sono stati concepiti proprio a partire da quell’ottobre 1991, dunque prima della formazione della Repubblica Srpska. È un passaggio apparentemente marginale per la condanna in sé, ma importante per l’analisi storica che seguirà a freddo. Come ad ammettere implicitamente che quell’entità politica, tuttora esistente, sarebbe fondata sulla pulizia etnica.

Ma d’altra parte, come è ormai risaputo, il Tribunale ha lasciato cadere l’accusa di “genocidio” per il resto della Bosnia-Erzegovina, mantenendola solo per Srebrenica. Un elemento che ha indignato le associazioni delle vittime non-serbe, e che rischia di perpetuare una sorta di gerarchia dei crimini tra Srebrenica e le altre località che, tuttavia furono oggetto dello stesso piano politico e militare, al netto delle loro diverse proporzioni. Una gerarchia, va detto, molto opportuna per chi minimizza i crimini dei vertici serbo-bosniaci (Srebrenica come “eccezione”, “incidente di percorso”), ma anche per chi esalta a fini politici, anche dall’estero, l’elemento identitario e martire della cittadina della Bosnia orientale.

La sentenza che ha condannato Karadžić è sicuramente tardiva e incompleta. Ma sarebbe sbagliato ridurla come un fatto marginale, o in termini di meri equilibrismi politico-giudiziari. Si sono pur sempre riconosciuti 10 degli 11 capi di imputazione, relativi a crimini gravissimi, tra cui la piena responsabilità criminale nell’assedio di Sarajevo, e la deportazione e stermini di massa in altre sette municipalità della Bosnia ed Erzegovina. Eric Gordy, politologo e uno dei più importanti analisti della regione post-jugoslava, ha commentato: “Penso che non sia così importante il fatto che Karadžić non sia stato condannato per genocidio negli altri sette comuni [all’infuori di Srebrenica, ndr], bensì ciò che il tribunale ha accertato come fatti. La sentenza conferma che in quei luoghi c’è stata una pianificata deportazione della popolazione non-serba, e eccidi di massa. Questi fatti sono importanti. Che questo sia definito un genocidio o un crimine contro l’umanità, è questione da giuristi. Ma nessuno può ridurre la portata di crimini contro l’umanità”.

Le conseguenze immediate del processo a Karadžić, sostengono Gordy e altri analisti, saranno probabilmente limitate, in un paese diviso nella politica, nei media e nell’istruzione (e quindi unito nel criticare la sentenza, da posizioni contrapposte). Ma quelle di lungo periodo potrebbero rivelarsi più incisive. L’eredità più consistente che lascia il Tribunale è l’impressionante mole di documentazione prodotta: non solo i dibattimenti processuali, ma soprattutto le fonti primarie apportate da testimoni e istituzioni nel corso degli anni, o recuperate dalle forze internazionali presenti in Bosnia-Erzegovina. Si tratta un immenso patrimonio di trascrizioni telefoniche, verbali, documenti politici e militari dell’epoca, peraltro in buona parte disponibile liberamente online. È grazie alla mole e all’inconfutabilità dei documenti se ormai nemmeno più Šešelj e Karadžić, nelle più recenti interviste, sono in grado di negare o minimizzare troppo il massacro di Srebrenica. Come ha commentato il sociologo Srdjan Puhalo, il principale problema della Bosnia-Erzegovina odierna rispetto al conflitto è il mancato riconoscimento, e rispetto, delle “vittime degli uni, degli altri e degli altri ancora”. Se le sentenze dell’Aja non hanno dato grande contributo alla riconciliazione, rimane da vedere se essa arriverà dal graduale vaglio dei documenti da parte di storici e delle organizzazioni civili, così come da un’auspicabile cambio generazionale nelle élite che governano la Bosnia-Erzegovina, oggi ancora troppo legate personalmente alle vicende degli anni Novanta.

Foto: © Mario Boccia (pubblicata con il consenso dell’autore)

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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