Anna Mazzone, giornalista di Panorama e Radio3, si occupa di Medio Oriente, Turchia e Caucaso e ha girato nel 2011 il documentario Nagorno-Karabakh, la guerra dimenticata. Recentemente è stata inserita nella black list dell’Azerbaigian, con il pretesto di esser entrata senza visto in territorio (secondo Baku) azero.
Nell’estate del 2014 c’è stata un’escalation di scontri, anche al confine azero-armeno: un segnale che l’Azerbaigian prepara un intervento armato?
Credo che l’aumento esponenziale delle spese militari dell’Azerbaigian negli ultimi tre anni indichi che il regime si sta preparando a iniziare una nuova guerra. Ci sono stati una decina di morti solo a settembre. Il Karabakh è un paese ostaggio di un regime, un paese che sta cercando di salvaguardare la sua indipendenza e la sua stessa sopravvivenza. Un attacco azero getterebbe tutta l’area nell’instabilità, creando enormi problemi all’intera comunità internazionale, legata a Baku dal “sacro vincolo” delle forniture di gas e petrolio.
Questo “conflitto congelato” non è invece utile all’Azerbaigian per compattare l’opinione pubblica nazionale, distogliendola dalle questioni di politica interna?
Il pericolo della ripresa di un conflitto in Nagorno-Karabakh è reale. Un dittatore come Aliyev è solito utilizzare la propaganda per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi concreti del suo Paese, ma è anche vero che in questo caso la crescente armenofobia in Azerbaigian mira ad avere un’opinione pubblica asservita qualora si spari il primo colpo di una nuova guerra contro l’Armenia.
Che non sta a guardare.
L’Armenia, come ogni altro paese dell’intera area post sovietica, utilizza uno schema di geometrie variabili in quanto ad alleanze. Certamente è un’alleata degli Usa, visto anche l’elevato numero di armeni che risiedono negli Usa, una lobby di pressione importante. Ma, dall’altra parte, è indubbio che l’Armenia ha anche un forte bisogno della Federazione Russa: per questo ha siglato il patto di adesione all’Unione eurasiatica voluta da Vladimir Putin. Cerca di stringere alleanze con i partner più affidabili, cioè Stati Uniti e Russia. Volutamente non faccio menzione dell’Europa, visto il suo peso pressoché nullo sulla scena politica internazionale.
Nei confronti del Karabakh, Stati Uniti e Russia come si muovono?
Non credo che con la presidenza Obama, gli Usa siano riusciti a tessere una strategia geopolitica nel Caucaso, così come in Medio Oriente. La diplomazia americana è in stallo da più di dieci anni. La Russia agisce da padre-padrone in tutta l’area, vigilando sulla stabilità delle sue ex repubbliche e intrattenendo rapporti di affari con l’Azerbaijan. Alla testa dell’Unione eurasiatica, che c’è sulla carta ma stenta a decollare, il Cremlino desidera mantenere la situazione così com’è, e poi decidere in futuro. Troppi sono i fronti aperti al momento per Mosca, dalla Siria a tutto lo scacchiere mediorientale
E la Turchia, dopo le elezioni di domenica scorsa?
Le frontiere tra Armenia e Turchia sono tuttora chiuse. Erdogan è un leale alleato di Aliyev e i suoi alleati della Nato (e dell’Europa) non sembrano intenzionati a porgli alcun freno nella sua deriva autoritaria, motivando l’inerzia con la necessità strategica di tenerselo buono per risolvere la crisi siriana.
Il Nagorno-Karabakh è poco considerato dai media internazionali?
Il Nagorno-Karabakh è un fazzoletto di terra tra Armenia e Azerbaijan. L’Onu lo considera uno “Stato sospeso”. E’ come se non esistesse, dunque i media internazionali se ne disinteressano, se non quando succede qualcosa di “grosso”. Inoltre, la guerra poi congelata tra Armenia e Azerbagian è esplosa mentre l’attenzione del mondo era tutta concentrata sul conflitto nei Balcani. In Karabakh non c’è petrolio e non c’è gas. La lotta per l’indipendenza di questo fazzoletto di terra nel cuore del Caucaso non va a toccare gli interessi delle grandi multinazionali. Ecco spiegata l’indifferenza del mondo.
Foto: Federica Benazzo
Dall’articolo e dal “reportage” proposti emerge, purtroppo una visione che appare se non distorta, perlomeno di parte. Ci si ostina a vedere gli armeni come i “buoni” e a dipingere gli azeri come i “cattivi” (per utilizzare termini semplicistici. Il gioco delle parti non è così semplice, e da troppi anni, approcci macro, geopolitici e giornalistici, hanno reso tale questione ancor più annebbiata. Mi riferisco al fatto he troppo spesso viene data una lettura di tipo esclusivamente politico e giuridico, basandosi sui grandi eventi e su affermazioni riportate da giornali (non solamente ufficiali), limitandosi a “trascriverle”. Mi chiedo come si possa fare un’analisi minuziosa, partendo dal fatto che non si conosca la parte “fluida” delle persone coinvolte. Mi riferisco al fatto che una visione su aspetti “micro”, piccole comunità e ambienti familiari, possano aiutare a comprendere come le relazioni, almeno dal punto di vista umano, non sono poi così congelate e così estreme. Mi riferisco a casi di villaggi alla frontiera, che, seppur hanno subito il trauma dello sradicamento territoriale, continuano ad avere contatti, per quanto possibile, tra loro. Mi riferisco al fatto di come la visione, anche di armeni a Yerevan e degli azeri a Baku, non condivida affatto questa politica di “demonizzazione del nemico”, tanto che, per dirne una, basta fare qualche km più in su e azeri, turchi ed armeni, hanno relazioni, in molti casi, assolutamente normali. Numerosi armeni e turchi, lavorano costantemente insieme. Vuoi per motivi di business, o di semplice amicizia, questo non è importante. Le relazioni, seppur piccoli esempi ci sono. Nel mondo post-moderno o sur-moderno, visto che il termine stato citato. Sarebbe più corretto parlare per vecchie e nuove generazioni di una visione decisamente più “aperta”, in linea con le prospettive, quantomai attuali delle diaspore incipienti. Da parte azera, gli sfollati stessi vivono situazioni di marginalizzazione, tentando faticosamente di ricrearsi nicchie economiche e sociali, nelle nuove e vecchie periferie azere. Le “frontiere” non sono così congelate.