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Da SARAJEVO – Gli ultimi anni non hanno registrato particolari novità venire dalla Bosnia ed Erzegovina, se non quando si trattava di proteste di piazza. Il 2015 però potrebbe riservare qualche sorpresa positiva. Con un nuovo governo e un nuovo approccio dell’Unione europea, riuscirà Sarajevo a recuperare lo svantaggio rispetto agli altri paesi della regione?
Bosnia ed Erzegovina, o della stagnazione?
Gli ultimi due anni hanno visto una strana dicotomia svilupparsi in Bosnia ed Erzegovina. Da una parte, la stagnazione delle istituzioni politiche, e una crisi economica cronica che abbandona i giovani alla scelta tra disoccupazione, lavoro nero o emigrazione. Dall’altra parte, il risveglio della società civile, che chiede di porre l’accento su diritti civili (nelle proteste della bebolucija dell’estate 2013) e sociali (nei moti di piazza di febbraio 2014), e si rimbocca le maniche per riparare ai danni delle alluvioni di primavera. Mentre nell’Europa mediterranea si protestava contro la tecnocrazia e per il ritorno al primato della politica, nella Bosnia di Dayton si scendeva in piazza per reclamare un governo tecnico e di esperti, e l’abolizione di una parte di quella casta politica (identificata nel livello intermedio di governo, i cantoni) percepita come parte integrante del problema.
Le elezioni di ottobre 2014 non sembravano poter essere foriere di particolare cambiamento, nonostante gli slogan di parecchi partiti vi si riferissero. Eppure qualche cambiamento l’hanno prodotto. I giornali nostrani hanno subito riportato notizia della vittoria dei “nazionalisti”. Ma si tratta ormani di partiti conservatori e identitari più che nazionalisti, spesso affiliati (come per lo SDA bosgnacco, l’SDS serbo e l’HDZ croato) al PPE di Merkel e Tusk.
Una nuova grande coalizione, per un nuovo governo
Così, complice il cambiamento dei rapporti di forza all’interno delle tre comunità politiche del paese, e malgrado i dettagli ancora da definire, i partiti bosniaci hanno annunciato a solo un mese dal voto il profilo di una nuova coalizione di governo. Anche se le speranze per una rapida costruzione di un governo sembrano essersi arenate, non si dovrebbe comunque ripetere l’impasse del 2010, quando per coagulare una maggioranza parlamentare ci vollero quattordici mesi, oltre un anno.
L’accordo di maggioranza dovrebbe mettere insieme una grande coalizione di partiti bosgnacchi (SDA, DF) con i partiti serbo-bosniaci finora d’opposizione (SDS, PDP, NDP) e il partito croato-bosniaco HDZ di Dragan Čović. Andrebbero così al governo, insieme, gli eredi dei tre partiti nazionalisti che si fecero la guerra tra 1992 e 1995, assieme agli ultimi eredi del socialismo titino che in Bosnia ebbe tanti sostenitori. Partiti ormai trasformati, che dopo vent’anni condividono la cornice statale della Bosnia ed Erzegovina e l’obiettivo finale di un ingresso nell’Unione europea.
A parte i dettagli ancora da definire (soprattutto nella relazione tra HDZ e SDS), il maggiore interrogativo rimane quello dei rapporti tra governo centrale e Republika Srpska (una delle due entità decentrate del paese) se il partito SNSD di Milorad Dodik, al comando di quest’ultima, dovesse essere escluso dal governo statale. Le relazioni tra i diversi livelli di governo in Bosnia potrebbero farsi più antagonistiche, proprio quando l’Unione europea richiede ai politici bosniaci di accordarsi su un meccanismo di coordinamento tra le diverse istituzioni incaricate di gestire le competenze necessarie all’avvicinamento del paese all’UE.
Verso un nuovo approccio europeo? Superare Sejdic-Finci
E anche l’Unione europea, complice il cambiamento dei vertici a Bruxelles (con la nuova Commissione Juncker) e a Sarajevo (un nuovo capo delegazione e rappresentante speciale UE è in arrivo: il diplomatico svedese Lars-Gunnar Wigemark, già ambasciatore UE in Pakistan), sembra pronta a cambiare marcia in Bosnia ed Erzegovina.
L’iniziativa l’hanno presa Regno Unito e Germania, pesi massimi uscenti ed entranti della politica estera europea verso i Balcani. Con una lettera congiunta ai vertici della nuova Commissione UE a inizio novembre, i ministri degli esteri Hammond e Steinmeier hanno proposto una via d’uscita dalla situazione di stallo che caratterizza oggi l’integrazione europea della Bosnia.
Il paese si trova ancora ai primi stadi del percorso verso l’adesione all’UE, anche a causa della contraddizione tra la Costituzione, siglata a Dayton, che riserva le massime cariche (camera alta e Presidenza rotativa) ai membri dei tre “popoli costituenti” (serbi, croati, bosgnacchi), e le norme di non discriminazione previste dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Tale contraddizione (la “questione Sejdić-Finci“, assunta dall’UE come precondizione per l’entrata in vigore dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione firmato nel 2008) si è però presto trasformata in una palla al piede per il percorso europeo del paese. Per risolverla, ci sarebbe bisogno di una complicata riforma costituzionale, per la quale continua a mancare ogni possibilità di accordo politico. E la ricompensa prevista (l’entrata in vigore di un accordo i cui punti salienti, relativi al commercio con l’UE, sono già coperti da un accordo ad interim) non è certo tale da giustificare uno sforzo tanto titanico, minando così i meccanismi di funzionamento della condizionalità europea.
Una questione che non era sfuggita al dibattito tra think tank sull’approccio europeo alla Bosnia. Nel giro di un anno e mezzo, d’altronde, Bruxelles ha modificato radicalmente il proprio approccio, passando dal minacciare di non riconoscere i risultati delle elezioni al cambiare completamente focus (con una mossa definita da un alto diplomatico locale alla Monty Python: “e ora qualcosa di completamente diverso”) concentrando l’attenzione sulle questioni socio-economiche tramite la proposta di un “Patto per la Crescita“.
L’iniziativa anglo-tedesca per rilanciare l’integrazione della Bosnia. Un piano in tre punti
L’iniziativa anglo-tedesca propone di “allargare l’agenda” per evitare di “affrontare questioni intrattabili troppo presto”, e intende adattare il principio di condizionalità alle specificità della Bosnia. Il piano d’azione, in tre punti, prevede gli impegni richiesti ai politici bosniaci e le relative ricompense europee.
In primo luogo, il nuovo governo dovrebbe impegnarsi per iscritto a lavorare ad un piano di riforme socio-economiche ed istituzionali (inclusa la questione Sejdić-Finci) per la funzionalità dello stato, che rendano la Bosnia ed Erzegovina, al termine del processo, pronta ad aderire all’UE come futuro stato membro. In cambio l’UE offre consulenza nel redigere l’agenda delle riforme, assieme all’entrata in vigore dell’accordo d’associazione.
In secondo luogo, con l’approvazione e l’attuazione delle prime riforme, l’UE potrebbe invitare la Bosnia ed Erzegovina a presentare domanda d’adesione. Infine, quando la messa in atto dell’intero piano fosse in fase avanzata (Sejdić-Finci inclusa), la Commissione potrebbe raccomandare al Consiglio UE di aprire formali negoziati d’adesione per il paese. Per Hammond e Steinmeier non si tratta di un cambiamento alla condizionalità europea, ma di “un approccio flessibile e pragmatico alla sequenza delle riforme”.
Di fatto, nonostante le assicurazioni del contrario, si tratta per l’UE di abbandonare delle precondizioni che negli ultimi cinque anni si sono dimostrate politicamente intenibili, salvando allo stesso tempo la faccia. La richiesta di modifiche costituzionali per risolvere la questione Sejdić-Finci viene rimandata a più avanti nelle relazioni UE-Bosnia – e potrebbe non essere l’ultimo rinvio. Nel frattempo, la condizionalità UE viene ricalibrata in maniera che possa effettivamente funzionare anche in Bosnia.
Occasione 2015. Un rilancio per l’integrazione europea della Bosnia?
La nuova capo della diplomazia UE, Federica Mogherini, ha riunito il 17 novembre il Consiglio Affari Esteri UE, che però impegnato su altri tavoli (Libia, Ucraina) ha dato solo un appoggio di massima all’iniziativa. L’Alto rappresentante ha detto che “ci potrebbe essere la possibilità di aprire un processo su nuove basi, senza toccare la condizionalità del processo di allargamento”. Si sarebbe trattato dell’opposizione di alcuni stati (Belgio, Spagna) al rilassamento della condizionalità.
Si è così dovuto attendere il Consiglio Europeo del 15 dicembre 2014 per avere delle conclusioni dedicate alla Bosnia ed Erzegovina, che riprendono il contenuto dell’iniziativa anglo-tedesca, pur sottolineando che si tratta di un cambiamento solo nella sequenza delle condizioni UE e non del loro contenuto.
Ora, i primi mesi del 2015 saranno fondamentali per vedere se la Bosnia ed Erzegovina riuscirà a recuperare il tempo perduto. Tutto sta nella formazione rapida di un governo centrale a Sarajevo e nell’impegno dei leader politici bosniaci ad un piano scritto di riforme.
Secondo l’ambasciatore italiano a Sarajevo, Ruggero Corrias, “Nessuna [riforma] intende minacciare la Costituzione, le Entità o i Cantoni. Al contrario, tutte puntano a un migliore funzionamento del Paese e un più efficace coordinamento tra Stato, Entità e Cantoni. Il tutto a beneficio dei cittadini e di un più rapido avvicinamento agli standard europei.”
La Presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina ha firmato tale “impegno scritto” alle riforme il 29 gennaio, inviandolo al Parlamento bosniaco per approvazione. A quel punto, l’accordo di stabilizzazione e associazione potrebbe presto entrare in vigore, e il 2015 potrebbe vedere la ripartenza delle relazioni tra UE e Bosnia, dopo troppi anni di stallo.
Foto: noveinicijative.org