Qual è il ruolo del Parlamento europeo nella politica estera dell’UE? Ne abbiamo parlato con Paolo Bergamaschi, senior foreign affairs advisor del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, che lavora nell’ambito sin dal 1993.
Partiamo dalle competenze. Il Parlamento europeo ha oggi le stesse competenze d’azione delle altre istituzioni (Commisione e Consiglio) oppure no?
Le competenze del Parlamento in politica estera non sono zero, ma quasi. C’è stato un passo avanti con il Trattato di Lisbona, ora il Parlamento viene informato e consultato sulle linee guida di politica estera, ma comunque sempre e solo ex post, a cose fatte. Di sicuro ha ottenuto maggiore visibilità, ma comunque la politica estera comune europea rimane in nuce, a causa dei veti reciproci all’interno del Consiglio.
Rispetto alle altre due istituzioni dell’UE, il Parlamento raccoglie la voce anche delle opposizioni a livello nazionale. Questo porta talvolta ad una diversità d’opinione rispetto a Commissione e Consiglio, anche in politica estera?
Il Parlamento si è spesso distinto nelle sue posizioni di politica estera, specialmente rispetto al Consiglio. Prendiamo il caso della Macedonia: sono già quattro anni che la Commissione ha dato la sua luce verde, e il Parlamento il suo assenso, all’apertura dei negoziati d’adesione con il paese. Eppure il Consiglio rifiuta di prenderne atto [per via del veto della Grecia, ndr]. E’ evidente in questo caso come sia solo il Consiglio ad avere l’ultima parola in politica estera.
Dall’altra parte, un caso positivo di influenza del Parlamento europeo in politica estera è quello del Kosovo. Malgrado cinque stati membri UE ancora non ne abbiano riconosciuto l’indipendenza, il sostegno del Parlamento ha fatto sì che l’UE si sia potuta muovere ugualmente e non ci sia stato un blocco al processo d’integrazione.
Kosovo e Macedonia in particolare sono stati i due casi di maggiore successo della politica estera comune europea: da una parte la prevenzione del conflitto in Macedonia nel 2001, dall’altra l’accordo di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo di questo scorso aprile. L’UE ha dimostrato di essere in grado di fare state-building nel momento in cui ha un’ascendente, legato alla prospettiva d’adesione.
Ciò va di pari passo con il bilancio positivo che bisogna fare del periodo 1989/2004 in Europa centrale e orientale, dove l’UE è stata in grado di governare il processo di transizione ed ha avuto un ruolo positivo e decisivo nel portare questi paesi verso il mercato e la democrazia.
Proprio l’anno prossimo sarà il decennale dall’allargamento a est dell’UE nel 2004. La politica estera europea è stata modificata dall’ingresso dei nuovi stati membri?
L’allargamento ad est ha radicalmente mutato la prospettiva di Bruxelles verso i paesi terzi. Ad esempio la posizione del Parlamento europeo verso la Russia è totalmente cambiata, da una prospettiva critica ad una contrapposizione dura e anche feroce, che non ha certo aiutato nelle relazioni con Mosca e con la Duma.
Il Parlamento europeo è talvolta intervenuto a supporto della politica estera comune con azioni di diplomazia parallela, come in Albania nel 2009 o quest’anno in Ucraina, con risultati differenziati. Quali sono le condizioni perché queste missioni possano avere successo?
Tali missioni sono state per la maggior parte di successo. Nel 2009 hanno aiutato a sbloccare la contrapposizione tra maggioranza e opposizione nel Parlamento albanese, quest’anno la missione Cox-Kwasniewski ha aiutato l’Ucraina a soddisfare le condizioni per la firma dell’accordo di associazione con l’UE [poi rifiutata da Yanukovych, ndr]. Altre missioni in passato sono state condotte, ad esempio, in Georgia e in Moldavia, dove l’anno scorso le famiglie europee dei partiti politici sono intervenute dalle due parti per sbloccare l’impasse che impediva di eleggere un nuovo presidente.
Bisogna vedere tuttavia quanto esse siano state un’iniziativa autonoma del Parlamento europeo, piuttosto che stimolata dalle altre istituzioni, Commissione e Consiglio. Talvolta il Parlamento europeo è meglio accetto in loco rispetto ad altri attori politici europei, anche grazie ai rapporti che si instaurano tra i gruppi politici europei e i partiti locali. Ne è un esempio la domanda del Partito progressista serbo (SNS) del presidente Nikolic di aderire al PPE.
Certo un rischio, nella politica estera del Parlamento europeo, è quello della politicizzazione, come si può vedere nel quadro della Politica europea di vicinato, che il PPE ha trasformato in una politica di affiliazione. In tal modo la scelta per l’Europa, che era una scelta consensuale e condivisa, che attraversava gli schieramenti, si è trasformata in una scelta divisiva, in grado di creare un nuovo solco politico nel paese. L’abbiamo visto in Ucraina, così come in Georgia e in Moldavia.